Taccuino americano numero 14: fare esperienza

Il Taccuino americano numero 14 entra nell’elezione presidenziale americana. Nell’arco di poche ore l’America sceglierà quale amministrazione e sensibilità dotarsi per i prossimi 4 anni. Erroneamente e sinteticamente ci si riferisce sempre solo a un nome per indicare un’intera classe dirigente chiamata a dirigere la Nazione; Romney come Obama celano un intero mondo che li sorregge e consiglia il cui valore è lo spessore dell’esecutivo.

Entrando nel campo delle previsioni, entro mercoledì (ora italiana) potremmo avere alternativamente:

a) un cambio di governo con l’entrata alla Casa Bianca di una amministrazione repubblicana;

b) il mantenimento di quella attuale;

c) una vittoria di stretta misura per un candidato come l’altro;

d) una schiacciante vittoria.

Su quest’ultima prospettiva francamente non ci crede nessuno, anche se il secondo mandato del Presidente George W. Bush jr nel 2004 sconfessò ogni previsione, però le elezioni furono condotte in un clima di pieno scontro militare nel post attacco alle Torri Gemelle. Oggi, nelle ultime ore, qualche proiezione azzarda una vittoria democratica con un +20% sull’avversario, ma parlando con le persone da una costa all’altra, un esito così marcato non emerge.

Considerando l’ipotesi del testa a testa, il ricordo va al Presidente Kennedy che vinse su Nixon nel 1960 con solo 112.827 voti, su 68,8 milioni di elettori, ma ciò non impedì la sua amministrazione di gestire la crisi di Cuba, i fatti nella Baia dei Porci, il duello con la Russia, il confronto in Indocina e una politica di rilancio del paese.

Però ogni confronto storico possibile non ci coinvolge mai come ora sul piano economico. Certo allora soffrivamo la guerra fredda e la conseguenze del terrorismo con stragi e morti, il che è peggio d’essere disoccupato, ma la crisi economica in corso dal 2006 e manifesta dal 2008 include il rischio d’implosione di tutto il sistema Europa e Usa ponendo in dubbio la democrazia come sistema di vita sociale.

Le nostre forme di governo non sono state fatte per reggere a un 36% di disoccupazione giovanile (in Italia) o al 25% su tutta la popolazione in Grecia e Spagna. Laddove in gioco è la nostra democrazia in Europa e più in generale in Occidente, lo sblocco della situazione politica ed economica negli Usa ha una diretta influenza per noi. Ecco perché ci stiamo interessando alle elezioni americane.

A questo punto Romney o Obama?

L’amministrazione democratica ha già espresso il suo fallimento. Quattro anni fa era “alle stelle” per l’effetto di meccanismi di psicologia sociale, mentre oggi a stento potrebbe vincere le elezioni. Il vuoto così manifestato è totale!

La proposta repubblicana delude per la povertà delle sue scelte. Poteva essere incarnata da un carismatico personaggio femminile, ma così non è stato e ancor peggio avremmo tanto voluto sentire un programma politico, più che solo un confronto in negativo tra le parti. L’America in questo assomiglia di più all’Italia. Qui, negli Usa la politica, oggi, non è più progettualità e visioni sulla società moderna nel futuro, ma critica distruttiva dell’avversario. In questo il ricordo e la gratitudine va a McCain, quando 4 anni fa, da candidato alla presidenza per i repubblicani, fermò la sua vice, la Signora Palin sulla deriva razzista contro Obama per essere islamico e di colore.

Finiti i confronti veniamo al concreto: quali prospettive tra un candidato a l’altro? Un’importante scuola di pensiero, pur dividendosi tra una proposta e l’altra, conviene su un punto: cambia poco!

Nessuno dei due candidati ha realmente “fatto ammenda” su un concetto di globalizzazione errato e dagli eccessi di delocalizzazione. Si, è vero, c’è stato un pronunciamento a favore del “made in America” da parte di Obama, ma non ne è seguita una decisa politica per favorire il ritorno in patria delle imprese (del resto già in corso da marzo di quest’anno) per assorbire 14 milioni di disoccupati.

Il partito democratico resta timido e quello repubblicano in crisi nel dichiarare che sotto il 20% di manifatturiero qualsiasi paese occidentale rischia importanti quote di disoccupazione (ogni 100 prodotti venduti sul mercato interno, almeno 20 dovrebbero essere prodotti in patria).

Però a ben guardare qui il problema non è più solo trovarsi senza lavoro, ma capire se questo tipo di società democratica ci piace ancora, perché stiamo mettendo in discussione il nostro livello di civiltà. Eppure, nonostante ciò, ancora nessun governo si sognerebbe mai di tassare quelle imprese che delocalizzano per i danni sociali che arrecano alla nostra cultura. Non si può vivere solo di utili: le imprese, se servono, hanno un ruolo sociale, altrimenti possiamo anche smontarle.

La funzione sociale di un sistema industriale è di dare lavoro e futuro a una società assumendo i figli degli attuali impiegati affinché si sposino, facciano figli, comprino case e invecchino diventando nonni. Quando le imprese si trasformano in finanziarie o centri direzionali, possono anche chiudere.

Sicuramente qualcuno vincerà, ma sembra che l’America resti ancora orfana di una politica industriale, economica e sociale adeguata. Quattro anni fa mentre tutti inneggiavano all’attuale presidente uscente, scrissi che dovevamo attendere quattro anni per trovare qualcosa di serio. Oggi, non è stata ancora fatta l’elezione ma il timore di dover attendere una nuova generazione politica si fa concreto.

Mi scuso con i lettori.

Sono cresciuto avendo negli occhi statisti del calibro di De Gasperi, Margaret Thatcher, Kennedy e Reagan e la mia gratitudine va a Cavour come a Roosevelt esprimendo una grande simpatia a Giolitti e Kohl e un po’ meno a De Gaulle. Con queste idee mi guardo intorno e sento solitudine, perché ho il difetto di aver bisogno d’ideali in cui credere per vivere.

Riflessioni dal Taccuino americano numero 14.