QUESTA VERSIONE DEL TESTO E’ STATA APPOSITAMENTE MODIFICATA PER CONSENTIRE UNA MIGLIORE LETTURA ALLA COMUNITA’ DEL PARKINSON

Il prigioniero da Parkinson reagisce agli studi qui pubblicati e lancia le sue prime critiche costruttive: evviva, qualcosa eppur si muove!

Ai numerosi studi qui pubblicati sulla condizione de il prigioniero da Parkinson,  iniziano ad esserci, non solo numerosi consensi e interesse, ma anche dei primi contributi di critica costruttiva. Questo è finalmente un aspetto nuovo e degno di rivolevo: evviva!
In particolare desidero riportare 2 di queste critiche costruttive: un signore e una signora, un italiano e una francese, che segue quanto sta avvenendo nel nostro paese sull’argomento in quanto nel mondo solo noi abbiamo portato la riflessione a questo stadio. Non esiste nel pianeta uno studio sociologico sul Parkinson articolato come quello noto nella condizione de il prigioniero da Parkinson

Parkinson

CRITICA COSTRUTTIVA NUMERO 1

 Il Signore italiano scrive: in merito alla militarizzazione della risposta al morbo da parte del il prigioniero da Parkinson attraverso l’uso di una disciplina, che ci concentri su qualcosa di nostro gradimento, purché costante e continuo, nulla di dire prof. Carlini, grazie per essersi dedicato a noi e d’aver saputo lanciare un ragionamento così originale e gradito. Va però rilevato che nelle 5 graduazioni del morbo, quanto Lei afferma è condivisibile solo nella prima fascia dove si concentra il 20% dell’intera popolazione sofferente (prigionieri). Che si fa con il restante 80?
RISPOSTA: è vero e apprezzo questa riflessione. Va notato però che mentre nella prima fascia di malattia, appunto solo un quinto, (il 20%) è facile e naturale “reagire”, quando qui studiato e suggerito, serve sia per ricordare come non rassegnarsi nel sentirsi malati (sarebbe una sconfitta gravissima) che a una mobilitazione generalizzata e reattiva, per dichiararsi vivi e non naufraghi. La teoria sociologia in ambito de il prigioniero da Parkinson, spinge il singolo a una reazione che mai fino ad ora c’è stata da parte di chi affetto al morbo. Reazione che è sicuramente individuale solo nella fase iniziale per divenire successivamente collettiva. Il fatto che sia “facile”reagire all’inizio e difficile nel proseguo del decorso del morbo, non vuol dire che la teoria sociologia non sia necessaria! E’ possibile pensare che quel 20% di persone affette dal morbo possa EDUCARE i prigionieri collocati nei restanti livelli della malattia a reagire? Il successo di una terapia sociologia del Parkinson consiste nello smettere di:
– considerarsi malati,
– vergognosi d’esserlo in termini sociali,
– nel recuperare una dignità affettiva e sessuale con il partner,
– e infine nel cessare quell’egocentrismo che blinda il prigioniero da Parkinson da una relazione sociale matura. E’ stato osservato come in diverse persone affette dal morbo, ci sia un’importante chiusura alle normali regole sociali, ponendosi al centro doloroso dell’attenzione, incuranti di recepire null’altro che non sia compiacimento alla sofferenza subita e in corso. Questo voler essere a tutti i costi malati dentro il malato, rende definitivamente spacciata la persona affetta dal morbo. Il prigioniero da Parkinson non è, e lo ripeto ancora, non è un malato qualsiasi, ma solo una persona “in prigione” che vuole evadere per conquistarsi un ruolo personale, familiare e sociale, che solitamente non ha compiacendosi del e nel suo dolore. Quindi vanno distinti i malati (rassegnati, egocentrici, arrabbiati e ostili, privi nel produrre idee, ipercritici) da quella persona che al contrario, attraverso la disciplina, combatte per il proprio benessere indipendentemente dallo stadio del morbo. In questo caso e solo in queste condizioni possiamo riconoscere il prigioniero da Parkinson.
CRITICA COSTRUTTIVA NUMERO 2
La Signora francese che segue dall’estero l’evoluzione degli studi in ambito di teoria sociologica su il prigioniero da Parkinson, afferma che sotto l’influenza di farmaci, nella cura del morbo ha avuto la necessità di ben 3 rapporti sessuali con altrettanti uomini diversi nello stesso giorno. Mi scrive non tanto e solo come sociologo dedicato al Parkinson, ma in particolare come sociologo in ambito di sessualità.
RISPOSTA: Grazie per avermi scritto Signora. Quanto descrive francamente, seppur indotto dai farmaci acquisiti e strumentali alla cura, non credo derivi solo dal piano farmacologico, ma da un necessità interiore nella ricerca di una stabilità non ancora raggiunta, benché sposata di diversi decenni e con figli grandi. Ne consegue che il fatto, seppur esistente e reale, non si esaurisce se connesso solo alla condizione de il prigioniero da Parkinson. Certamente, in riferimento allo studio già qui pubblicato sul Parkinson, relativo agli “snodi comportamentali”, la sessualità è certamente un passaggio importante d’approfondire per migliorare la qualità della vita, sia in sofferenza per il morbo che in ogni altra condizione della relazione vitale, preferibilmente di coppia. La domanda che mi pongo è: ha EDUCATO suo marito a un livello di prestazioni, durata e intensità giornaliera, che rispecchi le sue nuove esigenze, che poi sono quelle di ogni Signora occidentale tra i 45 e i 57 anni? (risveglio sessuale ed erotico)