Le conseguenze che derivano ai Paesi che aderiscono alla Nuova Via della seta cinese: aspetti di ecologia. Paragrafo 1 del capitolo 3 della tesi di laurea.

L‘ecologia da concetto sano e di rispetto per l‘ambiente è diventato una chimera per ragazzini, anzi fonte di grande strumentalizzazione assumendo così le vesti di una moda passeggiera.

Oggettivamente dispiace che un concetto fondato e nobile sia barattato con una fiammata di momentaneo entusiasmo modello Greta-gretini.

Nonostante la pessima immagine con la quale si presenti la sensibilità ecologica, nei confronti delle iniziative cinesi diventa un problema di grande importanza. Le conseguenze sono importanti.

Sostanzialmente un mondo pulito è un lusso che possono permettersi i paesi ricchi e Occidentali mentre a quelli poveri resta l‘urgenza dell‘immediatezza di strumenti e impianti che comunque funzionino.

Una dinamica di questo tipo, incurante della necessità di un ambiente pulito si è già ampiamente registrata nella Russia comunista (chiamata URSS) resa manifesta in occasione del disastro nucleare di Chernobyl.

Come già fu per l‘URSS, qualsiasi manufatto cinese è realizzato senza il minimo studio d’impatto ambientale. Le conseguenze di una tale ingnoranza produttiva non sono mai state effettivamente valutate in chi compra “made in China”.

Chiarito il contesto concettuale ci sono delle sensibilità critiche verso la Via della Seta, squisitamente Occidentali ed ecologicamente motivate.

Entrando nel merito del tema di questa tesi, che fino ad ora ha esaminato la Via della seta sotto aspetti storici e culturali, vanno fatte delle premesse.

Quanto comunemente indicato come „Via della Seta“ oggi è definita come NUOVA Via della Seta, proprio per distinguersi dal passato, non solo, ma a questa NUOVA spesso si sostituisce l‘acronimo BRI che indica in lingua inglese: Belt and road initiative.

Ne consegue che nella trattazione di questo testo, passando dalla parte storica all‘attualità, d‘ora in poi si farà rifermento alla NUOVA via della Seta o BRI.

Secondo le stime pare che la BRI dovrebbe coinvolgere ben 126 Stati sui 205 che esistono al mondo, cogliendo il 60% della popolazione mondiale con investimenti pari a 12mila miliardi.

I dati sono ovviamente di fonte cinese, quindi non soggetti ad alcun controllo se non quello del Partito Comunista, che indica nomalmente le aspettative anzichè la realtà.

Anche questa dinamica di sistematica distorsione delle informazioni si potè osservare nella Russia comunista avendone avuto poi prova all‘atto del collasso del sistema.

Il parallelismo tra il crollo del comunismo sovietico e quello cinese è immediato.

Lo studio sugli effetti in termini ecologici derivanti dalla BRI è stato pubblicato a Pechino il 3 settembre 2019 proveniente da una fondazione cinese: la Tsinghua Center for Finance and Development.

La proiezione sull‘impatto ambientale dalla BRI, è di un ipotetico aumento di +2,7° nella temperatura del globo se quanto annunciato dal Partito Comunista cinese si dovesse trasformare in realtà.

Le conseguenze sono importanti.

Si tratta di progetti infrastrutturali senza l‘applicazione delle usuali limitazioni nelle emissioni d‘anidride carbonica, solitamente in uso in Occidente.

Ovviamente questo sfondamento a +2,7° tradisce gli intenti di quello che resta dell‘Accordo sul clima di Parigi, sottoscritto nel 2017 reduce del giusto ritiro statunitense.

Gli Americani, e non solo, hanno ritenuto non firmabile un patto a causa delle profonde difformità nell‘applicazione dei costi di salvaguardia dell‘ambiente naturale tra paesi Occidentali e resto del mondo.

Lo studio cinese non sarebbe mai stato pubblicato (in Cina c‘è la censura) se non sviluppato congiuntamente con ben altre due organizzazioni, una britannica e l‘altra statunitense.

Si tratta dell‘Istituto britannico Vivid Economics e di quello statunitense Climate Works.

Lo studio congiunto testualmente recita: secondo gli autori del report, se le 126 nazioni aderenti alla BRI dovessero realizzare progetti infrastrutturali secondo l’attuale modello di business (quindi tenendo poco conto delle necessità ambientali) la quota d’emissioni di cui sarebbero responsabili passerebbe dall’attuale 28% al 66% entro il 2050.

In un simile scenario, anche se tutte le altre Nazioni al mondo dovessero centrare gli obiettivi climatici fissati con l’Accordo di Parigi (necessarie a mantenere il surriscaldamento mondiale entro i 2°C per il 2100), le temperature medie globali aumenterebbero comunque di almeno 2,7°C entro la fine del secolo.

Il catastrofismo di tale proiezione ricorda quello del Club di Roma negli anni Settanta secondo il quale per il 2000 saremmo dovuti tutti morire per eccesso d‘ozono nell‘aria.

Con il senno dell‘esperienza ogni proiezione ecologica va ripulita dal voluto catastrofismo, indottrinamento ed estremismo. Vedi il binomio Greta-gretini.

Al netto di tutto ciò resta comunque il segnale che indica un livello tecnologico cinese troppo modesto per gli impegni che il Partito assegna alla sua economia.

Lo studio sull‘impatto ambientale mondiale, derivante dalla BRI, svolto dai tre centri studi, in effetti è ben fatto perchè „immagina“ che possano essere applicati tre critieri industriali nella realizzazione delle diverse infrastrutture necessarie.

Sul tutto va rilevato come la ricerca si sia concentrata su solo 17 Stati rispetto ai 126 ipoteticamente interessati alla BRI, il che aumenta il livello di pericolosità complessiva dell‘iniziativa.

Il primo livello di realizzazione delle infrastrutture è chiamato Worst in Class.

Si tratta di quello previsto dal Partito con conseguenze di grande impatto ambientale a fortissime emissioni d’anidride carbonica come mai registrato nella storia del Globo, il pianeta Terra.

Il secondo livello di realizzazione delle infrastrutture è molto più „lento“ ripercorrendo le usuali tecniche d’apertura e gestione dei cantieri applicate in quei paesi soggetti ora all‘influenza cinese.

Questo standard di lavorazione è stato chiamato Business as usual.

Lo studio prevede anche un terzo livello, quello ottimo, chiamato Best in class.

Applicando lo standard usuale, quello Business as usual, le emissioni prodotte dai lavori saranno superiori del 68% rispetto a quelle previste dall‘Accordo di Parigi.

Un accordo che va ricordato che se fosse rispettato, prevede comunque un incremento di 2 gradi della temperatura terrestre dai livelli „pre-industriali“, meglio se fosse 1,5°.

In effetti sul quel „livelli pre-industriali“ c‘è confusione essendo iniziato il processo d’industrializzazione nel 1750 in Gran Bretagna.

Gli autori della ricerca, mettendo il dito nella piaga della cattiva qualità industriale cinese, sostengono che: sfruttando le best practice aziendali e gli schemi di sviluppo sostenibile messi a punto in diverse nazioni industrializzate, l’impatto delle emissioni potrebbe essere ridotto del 39% entro il 2050.

Quanto qui scritto, in particolare nel paragrafo dedicato per le conseguenze ambientali, potrebbe essere letto come apertamente anti-cinese.

In realtà è lo stesso rapporto pubblicato a Pechino che è implacabile rispetto la qualità del „made in China“.

Tutto ciò conferma come la presunta ascesa della Cina al primo posto per produzione industriale assomigli molto al bluff che l‘URSS rappresentò negli anni Settanta e Ottanta del Novecento.

Nonostante l‘ammissione della pessima qualità della produzione cinese, il rapporto propone 5 accorgimenti.

Le possibili varianti sono chiamate 5 azioni per decarbonizzare la BRI.

Riportando apertamente il testo, valutando le conseguenze si legge:

1 – creare una piattaforma internazionale, possibilmente coordinata dalle Nazioni Unite, che supporti la costituzione di una rete finanziaria sostenibile nei Paesi membri della BRI;

2 – estendere alla BRI i requisiti green usualmente rispettati in Occidente;

3 – promuovere l’adozione dei principi d’investimento green (Green Investment Pricniples – GIP) per i soggetti privati coinvolti nella BRI;

4 – fornire l’impatto climatico e l’impronta di carbonio dei progetti approvati nella BRI, in modo da garantire trasparenza;

5 – costituire una International Climate Coalition, ovvero una collaborazione bilaterale di schemi internazionali e regionali per l’avanzamento di progetti d’investimento a basse emissioni o clima resilienti.

Putroppo l‘insieme dei 5 punti non solo svela la vera natura del piano (introdurre nuovi attori nell‘iniziativa per partecipare alla spartizione dei finanziamenti) e fa riferimento ad un‘organizzazione, l‘ONU, notoriamente non adeguato nella gestione dei problemi, ma introduce anche criteri di trasparenza non compatibili con una società retta da un solo partito politico.

In pratica i 5 suggerimenti esprimono tutto il limite che emerge dalla scarsa capacità cinese nel gestire grandi progetti e l‘ipotetica maestosità dell‘idea.

Da tutto ciò emerge solo scetticismo sulla BRI e sospetto per le innegabili implicazioni politiche, quindi commerciali e infine militari cinesi sugli altri Paesi.

Una posizione questa che è condivisa in forma non meno diretta dal rapporto che recita: Il maxi progetto della Nuova via della seta è in pieno sviluppo già da diversi anni e ha subito numerose critiche proprio perché tacciato d’esportare tecnologie e processi produttivi oramai obsoleti ed eccessivamente impattanti sull’ambiente al di fuori dei confini cinesi.

Secondo una recente analisi di Greenpeace, la Cina avrebbe investito nella realizzazione all’estero di centrali energetiche alimentate a carbone per un totale di 67,9 GW, contro gli appena 12,6 GW di investimenti in impianti eolici o solari.

Il rapporto si conclude con un auspicio.

Considerato che la Cina, nonostante il suo gravissimo handicap di qualità, rispetto all‘Occidente, vuole assumere un ruolo guida nel pianeta, è possibile che prenda in seria considerazione l‘impatto ambientale tra le sue priorità importando le necessarie tecnologie?

A lato del rapporto e come riflessione di politologia sociologica, viene da chiedersi quanto una dittatura incida sulla ricerca scientifica.

In effetti la Russia comunista ha svolto una sua competizione scientifica con gli Stati Uniti dimostrando che la forma politica non influisce sulla qualità degli studi e ricerche.

Questo è vero in un lasso di tempo di qualche decennio.

L‘Urss sviluppò la sua ricerca tra gli anni Cinquanta e Novanta quindi per un periodo di tempo di 4 decenni, poi il collasso.

E‘ possibile pensare che un sistema dittatoriale possa produrre ricerca scientifica per 50 anni e non oltre?

La Cina è uscita dal suo tradizionale assetto agricolo grazie agli ingenti investimenti statunitensi motivati dall‘amministazione Nixon per uscire dal conflitto vietnamita, il che significa anni Ottanta.

Misurando l‘esperienza della Russia comunista, con generosità, in 50 anni di ricerca scientifica in presenza di una dittatura anche sulla Cina comunista, lo stesso periodo scade nel 2030. Infatti 1980-2030 sono esattamente mezzo secolo.

E‘ quindi possibile ipotizzare il collasso cinese in quella data come la storia ci ha insegnato?

Il collasso della Cina come sistema politico, sociale ed economico è un dato interessante di riflessione, storicamente provato e ineluttabile.

Il vero punto della questione non è se collassi o no la Cina, ma quando, evitando di trovarsi con il classico cerino acceso in mano.

Vanno in questo senso riviste tutte le proiezioni d‘investimento in un paese che potrebbe anche spaccarsi dal suo collasso: il primo pensiero corre al Tibet.

L‘intera regione tibetana rappresenta il sud ovest dell‘attuale territorio cinese.

Dal collasso dell‘attuale idea di Cina vanno ovviamente considerate le ex colonie europee quali Macao e Hong Kong, che potrebbero assurgere al ruolo di città stato come il Principato di Monaco.

Ecco le vere sedi dove potrebbe essere interessante investire sin da oggi, in previsione di un‘evoluzione in senso democratico dell‘intera regione sinica.

Pochi, ad oggi, valutano in forma completa le conseguenze sull’Occidente del collasso cinese.

L‘articolo qui più volte citato si conclude in puro stile di terrorismo ecologico con le parole: catastrofe climatica.

Pregasi apprezzare l‘immagine numero 7 raffigurante i 126 Stati che hanno accettato l‘influenza commerciale cinese attraverso la BRI senza valutare le conseguenze.

L’immagine, come noto è presente nella versione cartacea della tesi di laurea.