ZYGMUNT BAUMAN: commenti al libro “Voglia di comunità”


di Giovanni Carlini
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Parafrasando Ulrich Beck La società del rischio cerchiamo la salvezza individuale a problemi che sono oggettivamente comuni a molte persone, questo perché siamo soli, privi di una comunità a cui fare riferimento. Analizzando il concetto di comunità:

– offre sicurezza, ma richiede anche dei formidabili limiti di fedeltà assoluta!

– come in una famiglia, i figli, fino a prima dell’adolescenza credendo senza indugio ai genitori e immedesimandosi nel nucleo familiare, formano senza indugio La Comunità quale concetto e applicazione. Quando però iniziano i distinguo e la concertazione (anche solo sull’orario di rientro in casa serale-notturno per i figli che crescono) cessa lo spirito e l’essenza di comunità per iniziare quella che è riconoscibile in una società;

– ancora su questo punto: il tipo di comprensione su cui poggia la comunità, precede ogni accordo. Non è il traguardo, bensì il punto di partenza di ogni forma d’aggregazione. E’ un sentimento reciprocamente vincolante, la forza vera e reale di chi partecipa ed è grazie a tale comprensione che gli abitanti della comunità restano uniti a dispetto dei tanti fattori di disgregazione; (pag. 11 di Voglia di Comunità – 2005 Z. Bauman)

– questo estremo bisogno di certezze rappresenta il grande limite di una comunità. Come le comunicazioni si sono aperte e le distanze accorciate, il flusso costante di notizie sulle quali prendere una posizione ha naturalmente reso obsolete le comunità. Il riferimento corre al tardo Rinascimento, alla Riforma e Controriforma che hanno trasferito la dimensione comunale/villaggio in Regioni, Ducati e città. Nascono le grandi città in un urbanesimo ancora a dimensione d’uomo;

– per l’antropologo statunitense Robert Redfield i 3 caratteri di una comunità sono che sia peculiare (distinguendo tra noi e loro), piccola e autosufficiente. Il pensiero corre ancora al Villo, villaggio, Comune e comunque alla Famiglia;

– oggi le comunità etiche (tranne quelle estetiche) non ci sono più essendo state distrutte. Restano solo le famiglie;

– furono distrutte, pur essendo già logore dentro, per le necessità del capitalismo, trasferendo grandi quantità di persone (ormai masse) dai villaggi alle città, svalutando la dimensione locale in nome del progresso. Su questo aspetto c’è da soffermarsi. Per molto tempo è stato svilito il lavoro nelle comunità come non produttivo in nome della fabbrica e dei grandi numeri raggiungendo il progresso. La dimensione del ciabattino o artigianale di rione, nel piccolo centro urbano, è stata forzatamente ritenuta antica e non produttiva, in luogo di quella che sarà la catena di montaggio 2 secoli dopo. Solo un sociologo ha avuto l’ardire di recuperare e farci capire il senso del “ben fatto” nel lavoro artigianale: Thornstein Veblen. Egli, studiando il lavoro dell’uomo è giunto alla sintesi che la riluttanza al lavoro è qualcosa che viola l’istinto umano. Con queste affermazioni Veblen si scontra con Sigmund Freud. Questi nell’Avvenire di un’illusione eIl Disagio della Civiltà, afferma come l’emancipazione d’alcuni richieda la repressione per altri;

– un secondo passaggio nella distruzione delle comunità etiche è stato all’atto della nascita degli Stati, nazionalizzando le masse estratte dalle comunità locali;

– un terzo passaggio risiede nel transito dalla società solida (di produzione) a liquida (globalizzata e concentrata sul commercio). L’elemento distintivo della modernità nel suo stato solido è stata un’aprioristica visione per uno stadio finale in cui l’opera di costruzione dell’ordine in corso avrebbe raggiunto l’apice in un’economia stabile, una società giusta con leggi ed etica razionali. La modernità liquida, per contro, concede piena libertà nel trovare un punto d’equilibrio, che di fatto resta incompiuto in un’eterna sperimentazione. (pag. 72 del testo)

– con questi 3 passaggi l’uomo è solo, come già anticipato da Beck;

– il capitalismo, da parte sua si è adeguato, principalmente attraverso 2 strade: il taylorismo e la gestione delle risorse umane (Mayo). Quest’ultima, unita alla rivoluzione fordista (raddoppio degli stipendi) per circa mezzo secolo, e in particolare nei i trent’anni gloriosi della ricostruzione postbellica, assicurò una forte compattezza sociale; (pag. 37)

– chi ha sostituito la comunità è l’identità. Purtroppo però con l’identità si giunge a un’estrema personalizzazione del rapporto sociale, capace di trasformare la vita in una successione d’episodi singoli come il Don Giovanni di Mozart (ama far innamorare le donne e le lascia appena concluso il corteggiamento)

– si giunge a definire la secessione dell’uomo affermato come di un ritorno al privato (Richard Sennett) e di un impoverimento della spinta sociale al miglioramento e benessere. La chiusura nel privato ha un effetto edonistico che si racchiude intorno al consumo quale festa dell’abbondanza. Qui il richiamo a Pierre Bourdieu con la tentazione/seduzione come nuovi sistemi di controllo sociale rispetto a prima con la repressione e l’assimilazione;

– quando nasce la società dei consumi? Nell’ultimo quarto del secolo scorso. Con il consumo emerge la questione del valore delle merci. All’inizio fu considerato il lavoro necessario alla realizzazione del manufatto, quindi successivamente, si prese in considerazione l’utilità marginale. Simmel propose il sacrificio per ottenere il bene o per Marx il sudore necessario, ma si capì che è il desiderio per il bene l’unica vera unità di misura;

– un discorso a sé tante per confermare la solitudine dell’uomo moderno viene fatto intorno al rapporto tra Dio e gli uomini. Già Pico della Mirandola (La dignità dell’uomo) afferma: come una creatura di natura indeterminata e avendolo posto al centro dell’universo, gli disse: “Non ti ho assegnato alcun posto prestabilito, né una forma o alcuna funzione speciale e proprio a cagione di ciò tu potrai avere e possedere, in base ai tuoi desideri e senno, qualsiasi luogo, funzione e forma desideri (..) Sarai tu stesso, libero da qualsiasi costrizione, a decidere la natura che ti è propria
Questo vuol dire che l’uomo è solo.

Cercando delle conclusioni emerge come in una società globalizzata:

a) i poveri non sono più un bacino di riserva per l’industria, ma restano indigenti (è il caso di quando la povertà si trasforma in miseria);

b) le società globalizzate non riescono strutturalmente a dare un lavoro a tutti e questo va riconosciuto come un nuovo limite della società occidentale;

c) con la scusa del multiculturalismo le società occidentali sono ferme allo studio di vittime (immigrati, disadattati e micro gruppi sociali) senza interessarsi dei grandi temi come la redistribuzione del reddito nella società, divenuto argomento tabù; (Stefan Collini)

d) i nuovi ricchi si rinchiudono nel privato (secessione dell’uomo affermato) e questo si vede anche nella rinascita del localismo (il fai da te come lo definisce l’autore) che appare un controsenso in epoca globalizzata. Vanno segnalate tutte le difficoltà che sorgono, documentate dalla cronaca e note come TAV o localizzazione di stabilimenti di produzione, quindi smaltimento dei rifiuti. Le proteste montano, rientrando nel nervosismo conflittuale nichilista di fondo per questi tempi. Interessanti gli spunti della Sharon Zukin (1995) sullo spazio pubblico nelle grandi metropoli statunitensi, concepiti quale spazio controllato e protetto in una insicurezza e condizione di pericolo generalizzata;

e) la solitudine spirituale e reale dell’uomo, in una condizione di “paura urbana” (Zukin) si sfoga nel consumismo;

f) in ambito aziendale si registra come la Rivoluzione manageriale, libro scritto nel 1941 da James Burnham, realizzando la divisione tra proprietà e competenze, grazie all’ingresso dei manager, non si è ancora realizzata nel tessuto imprenditoriale italiano che resta tuttora nella dimensione padronale;

g) serve il recupero dello spirito di comunità, sia in famiglia che sottoforma di comunità aziendale definendo un gruppo coeso che protegga e sviluppi la singola persona affrontando problemi collettivi.