Taccuino americano 10: la voglia di non tornare

Taccuino americano 10, un’altra pagina di riflessioni che non interessa a nessuno. Devo essere onesto: pur non avendo nessuna fiducia nell’euro ho sperato, vivendo negli USA, che non crollasse. Nel caso i pagamenti mi fossero stati ostacolati sarebbe stato un guaio! Passando sul piano più generale, il quadro complessivo del continente europeo e dell’Italia appare critico. Questo lo sanno tutti, ogni giornalista monotonamente si ripete.

Che tristezza notare che ho spiegato la fine dell’euro già nel 2000 ma gli editori non hanno mai voluto pubblicarmi! Com’è monotono dire “lo si sapeva, ma nessuno ha voluto pensarci”. E ora il problema esplode in tutto il suo dramma. Non resta che leggere il Taccuino americano 10 (puntata numero 10) per ritrovare quello che tutti sappiamo ma nessuno ha pubblicato.

Foto: Pendleton in Oregon, è un famoso centro industriale e turistico. Il riferimento è alle coperte Pendleton e al rodeo. Il Taccuino americano si arricchisce anche di questo girovagare.

 

È chiaro che per superare la crisi iniziata nel 2008 ci sono delle strategie. Il premio Nobel Paul Krugman ha scritto un breve libro, pubblicato in aprile. L’impostazione sembra errata, perché non considera la piaga della delocalizzazione nel manifatturiero.
Comunque sia, appare sempre di più come il singolo operatore non possa interagire sul mercato se non in un meccanismo di rete. Mi spiego. Informare il Governo che la delocalizzazione è un boomerang che sottrae posti di lavoro, richiede la presenza e la forza d’impatto di un’associazione. Il singolo studioso o ricercatore non viene ascoltato.

Il ruolo di un taccuino americano è tutto qui. Prendere nota di qualcosa che nessuno vuole leggere. Serve anche per dare valore al viaggio evitando d’essere un pacco postale.

Tornando la tema di fondo, purtroppo non tutti sono in accordo sulla pericolosità per il benessere della delocalizzazione. Chi ha veramente guadagnato dalla delocalizzazione, sono gli industriali che non si sono preoccupati del male arrecato alle giovani generazioni del paese.
Ne consegue che stanno chiudendo le piccole imprese.

Chiude chi dipende dal mercato interno appesantito da povertà e disoccupazione.

Vive che è proiettato all’estero (il che è un bene) e chi ha delocalizzato (il che è un male per l’Italia). Una sana delocalizzazione sarebbe il presidio di nuovi mercati. Una malefica delocalizzazione è per reimportare beni realizzati all’estero e venduti in questa nazione. Finché tale pratica non sarà stroncata con accorgimenti fiscali (paghi più tasse chi ha delocalizzato per reimportare) dalla crisi non si esce.

Va notata in America una novità. E’ diffusa la prassi di discriminare le merci a seconda della provenienza. Quest’atteggiamento pone in forte imbarazzo i venditori, che non erano pronti a una modifica delle preferenze così netta. Lo scontro è particolarmente acuto sulle scarpe “made in China”. Al contrario godono di un buon mercato quelle “made in America”. Incuriosice come il prodotto cinese sia realizzato con capitale americano. Ora con i nuovi orizzonti, i flussi finanziari tornano a casa. I quotidiani definiscono la tendenza “nazionalismo finanziario” prevedendo la rinascita dell’economia statunitense. Quanto ci vorrà perché anche l’Italia se ne accorga?

Segnali di questo tipo spiegano come la globalizzazione abbia peccato d’eccessi. Ora si torna non tanto ai mercati nazionali quanto alla macroarea. Il riferimento corre alla UE, Nafta, Mercosur che rappresentano placche continentali, in senso commerciale, ben definite dove muoversi. Ecco che il Taccuino americano 10 (alla pagina dieci) contribuisce alla strategia.

Concludendo la puntata 10 del Taccuino americano, il futuro richiede degli aggiornamenti comportamentali per le imprese.  Da soli non ci muove più. E’ necessario identificarsi in una rete, in un’associazione oppure in grandi accordi.
Non solo, ma le energie che scaturiscono dalla nuova forza sinergica vanno indirizzate in un’area commerciale nota. Il vantaggio sono regole e leggi note. L’obbiettivo è il rispetto del numero di posti di lavoro senza i quali non c’è sviluppo. Del resto se proseguire significa aggravare l’errore, non resta che tornare indietro. Il vero quesito non è se tornare a qualche anno fa, ma di quanto indietro: forse al 2000 oppure ancora oltre agli anni Novanta? Qualcuno pensa che per recuperare i valori serva tornare agli anni Cinquanta.