Considerazioni di sociologia applicata alla prospettiva di vita di un’impresa. E’ meglio l’impresa in comunità o nella più ampia società?

Considerazioni di sociologia per le imprese e la loro prospettiva di vita. Per affrontare questa prospettiva d’evoluzione aziendale serve ricorrere alla cultura.

Nel 1887 un sociologo tedesco, Ferdinand Tonnies intitolò Gemeinshaft und Gesellshaft la sua opera più importante, focalizzando i concetti di comunità e di società. L’autore si schierò, senza indugio, per la prima criticando aspramente la seconda.

Secondo Tonnies, soltanto la comunità era un organismo vivo, fondato su una stessa eredità etnica e culturale, i cui membri erano uniti sia da legami di sangue sia da comuni sentimenti e aspirazioni. Dalla comunità si passa, al suo interno, nell’economia sociale, dove ogni uomo ha un valore perché figlio di.. e della tribù di..in luogo dell’economia di mercato che resta anonima e impersonale. Infatti la società è insita nell’urbanizzazione e solitudine. Un caso concreto di questa prospettiva è nei distretti industriali.

In realtà, per quanto comprensibile possa essere il pensiero di Tonnies servono delle considerazioni d’approfondimento. Possiamo identificare negli USA uno stato comunità e nell’Italia una società. Va anche rammentato come i gruppi chiusi abbiano espresso povertà e miseria, oscurantismo e limitatezza di vedute. In pratica il Medio Evo è figlio di un mondo comunitario, la Rivoluzione industriale porta alla società con tutti i suoi difetti e miglioramenti della qualità e longevità.

Fin qui tutto chiaro, però in realtà a ben guardare e se fosse possibile l’impossibile, vorremmo unire gli agi e sicurezze della società all’umanità di una comunità. Come in tutte le cose c’è sempre da perdere e guadagnare in ogni scelta.

In questo caso, essendoci di mezzo la persona umana, servono dei compromessi. L’uomo è frutto di un accordo. Solo nella tecnica (e neppure tanto) è possibile adottare “il bianco e il nero”. Gli esseri umani, per vivere ed essere felici, hanno bisogno di molte tonalità di grigio.

Se questa è l’impostazione dottrinale passando al pratico, l’azienda, come luogo dove si vive una parte importante del giorno se non si dotasse di una “politica del personale” si espone alla casualità delle performance di produttività e gestione dei costi interni.

Per politica del personale s’intende un’idea sull’impiego della gente (modulata attraverso l’organigramma e il mansionario per capire chi dirige, come lo fa e attraverso quali passaggi). Strumenti che chiariscono non solo l’oggi, ma le prospettive future di carriera e crescita.

Nessuna persona è realmente disponibile a lavorare senza un’idea di quello che sarà.  Se per un certo periodo di tempo, potrebbe apparire il contrario, vuol dire che la persona si ricollocherà.

Quelle figure che sono rimaste per 50 anni nello stesso posto di lavoro appartengono a un modello di società comunitario che è, purtroppo per tutti noi, maturo per la pensione.

Il modello perfetto non si fossilizza su chi sposò il posto di lavoro, ma sottolinea come sia importante sentirsi “azienda”, incarnarne il senso e lo scopo. Perché questo avvenga serve un patto tra l’impresa e il dipendente, impersonato dal titolare (o da uno specialista).

L’accordo prevede che in un certo numero di mesi verrà acquisita una certa capacità, quindi successivamente un’altra.

Come nella vita privata, anche in quella professionale un percorso di crescita noto e condiviso è la base per ottenere fedeltà e motivazione, quindi migliore produttività e bassi costi di gestione.

In pratica che l’impresa sia una comunità sociale capace di rispondere a una domanda: cosa sarà di me nel futuro?