La globalizzazione quale atto politico nasce con l’ingresso della Cina nel WTO a novembre del 2001 (dopo appena due mesi dall’attacco terroristico alle Torri Gemelle in New York).

Presentando al mondo la Cina come partner economico e soprattutto produttivo a basso costo, l’Occidente si è assicurato un drastico calo nei costi di produzione e la potenziale crescita della base di consumo. 

Il combinato disposto tra un mercato che potenzialmente avrebbe potuto ricevere tutte le merci sino ad ora date per scontate in Occidente e la possibilità di produrre per quest’ultimo a bassi-bassissimi costi, ha consentito un incontrollato movimento migratorio delle aziende dal mondo industrializzato verso i paesi in via di sviluppo: Cina, India, Brasile, Sud Africa.

Di fatto oggi la dittatura comunista cinese è in pratica sia una colonia produttiva occidentale sia una discarica con tassi d’inquinamento fuori dagli standard di conteggio del mondo civile perché non misurabili, ma questa è la scelta di ogni dittatura. 

Altra dittature come in Venezuela, Libia e generalmente Paesi arabi come africani, perseguono diverse priorità di casta o tribù.  

In questo mondo globalizzato dominato da delocalizzazione produttiva e “felicità consumistica” basata sull’uso/abuso del Web attraverso cellulari e computer, si consolida la globalizzazione.

In fondo e di fatto il concetto globalizzato non risponde a una cultura o mentalità se non una forzatura verso le 9 culture del mondo a consumare gli stessi prodotti per abbatterne il costo di produzione.

La naturale conseguenza di un pianeta che “deve” consumare in forma standard, prevede “l’abbattimento delle frontiere” ovvero l’assoluta libera circolazione delle merci e persone.

Come tutto, nell’era globalizzata, anche questi concetti sono stati volutamente esagerati provocando delle aperte crisi migratorie.

Di fatto, provenienti da culture a ridotto benessere sociale, politico ed economico, la gente oggi non vuole fondare nel proprio paese un accettabile livello di vita, ma semplicemente spostarsi geograficamente per vivere “altrove” in assetti culturali che non gli appartengono.

Da qui nasce la crisi di contrasto tra assetti culturali divisi da 50mila anni che non possono e vogliono convivere se non tollerandosi a vicenda spesso in forme infelici. 

La diplomazia, nell’era globalizzata, chiama all’accordo e alla concertazione venendo sistematicamente smentita all’atto pratico come oggi in Venezuela e Libia. 

Perché in era globalizzata ci si ostina nel “disegnare” un mondo della concertazione (per garantire flussi di consumo diffusi per materiale superfluo come l’accesso al Web e al social anziché ospedali, fogne, scuole e altro) quando non esiste perché estrano alla cultura dell’uomo?

A questa aperta contraddizione rispondono diverse reazioni che sono:

  • la Brexit britannica;
  • la presidenza Trump
  • la crisi della UE. 

La globalizzazione è frantumata e dalla sua crisi emerge un forte movimento nello ristabilire gli equilibri di differenza culturale. 

Il muro o i muri sono per dividere lasciando fuori quelle culture che sono rimaste indietro rispetto alle altre e non vogliono cambiare in casa propria le regole di vita.

Il migrante oggi è un terrorista economico o culturale che rifiuta il proprio paese per migrare altrove. Un concetto completamente diverso rispetto a chi ha vissuto:

  • la Rivoluzione inglese;
  • la Rivoluzione francese;
  • la Rivoluzione americana;
  • la Rivoluzione borghese;
  • già nel 1648 visse le diverse paci di Vestfalia;
  • quindi nel 1750 la Rivoluzione Industriale;
  • fino a giungere alle Rivoluzioni del 1848;
  • i diversi Risorgimenti nazionali europei;
  • la lotta di Liberazione nel secondo conflitto mondiale;
  • le nuove Rivoluzioni industriali e culturali.

Le altre 8 culture del mondo, rispetto all’Occidente, non avendo vissuto questi passaggi restano, nel confronto, all’epoca delle Paci di Vestfalia. 

La migrazione è sempre stata accettata quando si realizza nello stesso ambito culturale, questo vuol dire irlandesi o polacchi come italiani negli Stati Uniti o in Australia. 

I nostri migranti hanno imparato la lingua del posto e fatte proprie le leggi della Nazione ospitante. In tal contesto, all’interno della cultura di riferimento la migrazione è fonte di travaso di energia.

Completamente diversa è la migrazione tra culture diverse!

Il nuovo migrante (vedi negli Stati Uniti gli ispanici ad esempio) non impara l’inglese pretendendo di proseguire a parlare spagnolo. Questa ostinazione nel conservare la propria lingua in terra altrui è una delle fonti della frattura sociale che genera la migrazione della globalizzazione. 

Televisione in spagnolo, pubblicità in spagnolo in terra d’America non indica solo una cortesia verso il confine meridionale, ma la frattura sociale come quella in Europa nella forzata convivenza tra etnie e razze diverse dall’Occidentale. Da qui nasce la puntuale polemica sulla costruzione delle Moschee in terra cristiana in presenza d’intolleranza culturale tra arabi e occidentali. 

Su tutto questo si è spaccata la Ue, inizialmente con il fenomeno Brexit quindi con la critica elezione di fine maggio 2019 e l’importante affermazione di partiti ostili alla stessa visione Ue (forze chiamate sovraniste e nazionaliste). 

Va precisato come il continente europeo sia formato da 46 Stati mentre la Ue ne coglie solo 27 facendo emergere come ci sia un’appropriazione indebita del termine “Europa” da parte della Ue.

E’ tipico dell’era globalizzata l’utilizzo indebito di slogan e concetti che si rivelano poi vuoti di contenuti. La globalizzazione resta vuota di concetti.

Un esempio è il mito dell’accoglienza o della solidarietà. Accogliere 10 milioni di migranti in Italia di cui 5 ormai con nazionalità, ha comportato qualcosa di diverso rispetto la forzata convivenza?

In tale contesto si apre la riflessione sulla revisione del concetto di accoglienza in un mondo (arretrato e globale) che spera di risolvere  in forma concertata drammi del passato senza capire che il nuovo è costituito dalla divisione e dal muro tra “loro e noi”. Il nuovo esprime la fondatezza di un’identità culturale dove si entra solo se integrati. la globalizzazione è finita, ora siamo in era post-globalizzata.