Alla ricerca della logica nel teorema di Modigliani-Miller formulato nel 1958

Alla ricerca di una logica. Al di là della sua intensa formalizzazione matematica, il teorema di Modigliani-Miller (entrambi premi Nobel all’economia) afferma che più un’impresa s’indebita e meno tasse paga, il che vuol dire ricevere una spinta in termini di leva finanziaria.
Se questo teorema lo si collega al discorso che “Gekko” pronuncia nel film Wall Steet 2 (appena scarcerato spiega il perché dei subprime) possiamo capire gli ingredienti della crisi già emersa nel 2007 negli USA e in Europa dall’anno successivo, oggi in seconda battuta. Il motore del collasso, afferma “Gekko” è nella speculazione, ovvero un uso improprio della liquidità quella stessa che Modigliani auspicava per le imprese.
Si può imputare al prof. Modigliani la responsabilità dell’attuale crisi? Francamente no. Miller e Modigliani pensavano a una liquidità d’impresa finalizzata alla creazione di nuova produzione, aprendo cantieri e generando posti di lavoro. Intesa in questi termini “benedetto sia” il capitale di terzi nello Stato Patrimoniale delle nostre imprese. Così comunque non è stato.

Quanto dovrebbe rendere il capitale proprio

Nel teorema di Modigliani-Miller la redditività del capitale proprio la si ottiene con il ROE (return on common equity). Quanto debba valere dipende dal corrente tasso d’interesse applicato sui titoli di stato. In questo momento un rendimento minimo è intorno al 5-7%
Proseguendo, arriviamo alla leva finanziaria (leverage) ovvero all’incidenza del capitale di debito su quello proprio. Siamo nel regno della finanza aziendale, ovvero nel cuore della crisi che oggi attanaglia tutto l’Occidente.

La radice della crisi

Addebitare alla finanza d’impresa la responsabilità dello sfascio della nostra cultura del lavoro, sarebbe non completo senza aggiungere gli effetti della globalizzazione/delocalizzazione. Ora il quadro è completo.

Cosa si sta studiando per uscire dalla crisi: alla ricerca di una via da seguire

Gli studiosi più “audaci” si stanno interrogando su come spegnere la “società dei consumi”, senza cadere in un Medio Evo economico qual è oggi l’Africa, evitando la pianificazione industriale del modello comunista dittatoriale (la Cina). L’India e l’America Latina hanno sacche di povertà ancora enormi per poter essere considerate dei modelli. Meno ancora è da studiare il Sud Africa e in Asia resta irrisolto il problema se sia più importante l’individuo o la comunità di cui fa parte. Tradotto in termini più diretti, se le società Occidentali sono costruite intorno al singolo, quelle asiatiche si basano sulla collettività da cui processi di collettivizzazione e di comunismo.
Se oggettivamente l’Occidente ha esagerato restando vittima di un eccesso d’individualismo, oggi trasformato in nichilismo puro (conflittualità nervosa di tutti contro tutti) non si può cadere nell’eccesso opposto che tradisce il valore dell’uomo.

Come se ne esce

Apparentemente la crisi si misura sul piano economico, ma in realtà scaturisce da un modello di vita (e quindi di consumo) che è finito. Servono nuovi valori, probabilmente più nazionali e meno ubriachi d’internazionalismo com’è stato dal 1990 a oggi. Necessita un diverso linguaggio del tipo il prodotto dal prezzo equo, che sia ecosostenibile, il giusto rapporto costo-efficacia, una pubblicità che insegni qualcosa, un lavoro che faccia crescere, uno scritto che non scandalizzi per attirare lettori, ma educhi. Ecco la parola chiave: educazione. Parafrasando servirebbe una produzione “educata” per un mondo in cerca di nuovi modelli comportamentali.