Se abbiamo imprenditori che non ci arrivano. Cercando di far capire al Capo aziendale che la forza è nell’aggregazione.

Se abbiamo imprenditori miopi che facciamo? Da molti mesi seguo un’impresa di oltre 100 dipendenti nei suoi processi di internazionalizzazione, quindi contabilità interna e industriale, gestione delle risorse umane, piano di marketing e gestione strategica (modifica societaria, contratti in rete etc..)

Ogni tanto dal nucleo dirigente, riconducibile a solo 2 famiglie, che fondarono l’impresa decenni fa, mi pervengono delle segnalazioni per intervenire su qualche dipendente al fine d’aiutarlo a rientrare negli standard graditi alla proprietà. Questa funzione d’accompagnamento al Responsabile del personale è ormai nota in tutta l’impresa, che conosce la mia tendenza a ridurre il numero dei dipendenti, già calati di 8 unità in un solo anno.

Ebbene prendendo in carico una certa posizione, chiedo alla proprietà le motivazioni dell’insoddisfazione. Partendo dal presupposto che l’azienda soffre di assenteismo praticato principalmente attraverso la malattia, per cui nelle più forme (permessi, gravidanza e assenze ingiustificate) a volte il 12% del personale è assente, pervengono alla mia attenzione posizioni individuali coinvolte con queste dinamiche. Una mi ha incuriosito e permesso di capire quanto miope sia la visione dell’ imprenditore quando è ancora padrone.

Un dipendente avrebbe dovuto avere due giorni di malattia, quando in realtà ne ottiene sette. A causa della sua posizione lavorativa, l’assenza comporta un oggettivo disagio all’ufficio, specie se anche altre persone in diverse funzioni di quell’area sono assenti.

L’irritazione della proprietà non è tanto circoscritta ai 7 giorni di malattia in luogo dei 2 previsti, quanto al comportamento del dipendente che non si è mai fatto sentire per telefono nei giorni di degenza a casa.

Onestamente con queste premesse mi trovo in difficoltà nel “rieducare” il personaggio, pur sapendo che in questo contesto hanno ragione entrambi. L’imprenditore sbaglia nel pretendere che il suo approccio al lavoro venga adottato dai dipendenti. Questo particolare denota la differenza tra un padrone e il manager.

L’errore, a mio parere, consiste non tanto nell’indignazione della proprietà verso il dipendente per non aver telefonato, ma nel non aver educato le maestranze attraverso una idonea politica del personale. Non basta dire (per quanto importante sia) “io azienda ti garantisco stipendio, tfr e pensione” per motivare le persone. Pur capendo a pieno il valore di questa affermazione (soprattutto se udito dalla parte dell’8,5% della popolazione attiva priva di lavoro) viviamo in una società opulenta e viziata che richiede una successione di attenzioni per poter dare l’ovvio.

Chi ha ragione e chi torto? Purtroppo hanno entrambi ragione-torto. Come se ne esce da questo labirinto?

a) se l’assenteismo è frutto d’ignoranza, paragonabile sul piano sociale all’evasione fiscale, è anche vero che deriva sempre da un problema di vivibilità sul posto di lavoro;

b) garantire adeguate condizioni ambientali e sociali di lavoro significa adottare una politica del personale condotta da un professionista e non dallo stesso imprenditore-proprietario. Per contenere i costi si può tranquillamente ricorrere a una figura (studio professionale) che presti la sua opera per più aziende, a patto che sappia esprimere carisma e personalizzazione nel rapporto con i dipendenti (se così non fosse si otterrebbero gli effetti contrari)

c) l’ imprenditore ha un altro scopo oltre che preoccuparsi della “sua gente”. Deve garantire lo stipendio-tfr-pensione attraverso il procacciare lavoro, lasciando principalmente a chi si è preparato a ciò, l’onere di capire e indirizzare i dipendenti;

d) l’ imprenditore poi, con l’intero suo Stato Maggiore, ha l’onere della formazione continua per adeguare la sua impresa ai tempi e mercati in costante evoluzione.
Rispettando questi ordini e gradi d’impegno, è possibile che la comunità aziendale possa funzionare garantendo anche un costo del lavoro adeguato alla produttività. Infatti spesso gli imprenditori osservano solo il nudo dato senza collegarlo alla quantità di cose fatte all’ora (produttività).

Ovviamente questo costo cambia nel suo onere se rapportato a poche o molte cose fatte e all’uso degli strumenti adottati. Ad esempio a fronte di un costo orario di 8 euro, se fosse svolta solo 1 funzione, quella costerebbe 8 euro, ma se le azioni svolte fossero 10, lo stesso costo sarebbe di 0,8 euro, da cui deriverebbero prezzi di vendita diversi.

Sulla base di questo ragionamento, spesso gli imprenditori mi chiedono relativamente a una posizione lavorativa: quanto costa? E io gli rispondo: quanto rende? Punti di vista differenti.