Quando nel Pet il cliente è donna in maggioranza sugli uomini. Il genere, quando si parla di comportamenti di consumo, fa la differenza?

C’è una differenza tra uomini e donne nei comportamenti di consumo in ambito di pet? Abbiamo fatto una piccola indagine, e le risposte sono state molto interessanti. Una negoziante nell’ambito pet di Udine, per esempio, dice di no, mentre un’altra, sempre attiva nel pet, ma di Brescia, dichiara di non averlo mai notato. Interviene Mestre che afferma: la differenza tra donne e uomini è abissale, sentenza confermata anche da San Donà di Piave. Rincara la dose Chiavari, che indica addirittura delle differenze nello scontrino medio di acquisti tra clienti di diverso genere, con la conferma di Firenze e Milano. Grosseto aggiunge: l’acquacoltura è solo per gli uomini. Ma conclude Corte Franca, Comune della Provincia di Brescia: ci devo pensare e, ora che me lo fa notare, in effetti…

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DIFFERENZE DI STILE. Le donne hanno un modo di vestire e di comportarsi che è tipicamente femminile, identificando in questo modo uno stile culturale di presenza nella società, e anche gli uomini hanno i loro atteggiamenti tipici. Ci chiediamo: queste differenze hanno una ricaduta sulle scelte d’acquisto in ambito di pet? Sull’argomento esiste una sterminata bibliografia che conferma i diversi comportamenti nei filoni di studio del marketing e della sociologia dei consumi. Nel mondo del pet italiano, una sensibilità tale per cui si possano adottare stili di vendita e di esposizione della merce differenziati a seconda del genere, femminile o maschile, non si è ancora realizzata. Lo conferma anche la signora Michela Rostirolla, che da 30 anni gestisce ben 2 negozi di pet nel nord d’est d’Italia e dice: “Le differenze tra uomo e donna nei comportamenti e nelle scelte d’acquisto sono sostanziali, ma non ci siamo mai spinti nel modificare il format espositivo dentro il negozio per intercettare le diverse necessità dei clienti di riferimento”. Una tesi confermata anche dalla signora Emilia di Mestre, con un passato da direttrice vendite di un grande marchio italiano. “La mia fortuna come negozio di pet”, afferma, “è che i miei clienti sono sostanzialmente tutte donne. Non che non sappia relazionarmi con gli uomini, ma è certo che si è creato un feeling molto forte con le mie clienti, che oggi sono mie amiche”. A questo punto, che il negoziante sia cosciente o meno della diversità di stili ed esposizione della merce, da applicare nel gestire la diversità di genere nel suo negozio, il tema è caldo. Sarebbe saggio sottolineare che tradire questo punto di vista probabilmente non rivoluziona il volume d’affari del negozio, però concorre a misurarne la differenza con chi non applica le stesse attenzioni.

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CERCARE E NON TROVARE. Ma tutto quanto detto fin qui non può essere trattato come un argomento a sé stante senza tener conto di una visione complessiva del rapporto con il cliente in ambito pet. Parlando in termini di marketing e sociologia dei consumi, questo significa collegare l’aspetto più appariscente del ragionamento, cioè la diversità negli stili di consumo tra donna e uomo, a una visione più completa. E così la domanda diventa: perché le persone entrano in un negozio di pet e come vengono accolte? Studiando i diversi comportamenti dei negozianti nel rapporto con il cliente, si nota un disagio di fondo nell’aprire il contatto con la persona che entra nel pet shop per curiosare. Gli interrogativi più frequenti che i gestori di negozio si pongono sono:

devo andare incontro al cliente chiedendo cosa posso fare per loro anche se la risposta è sempre la stessa, cioè guardare? In questo modo il commesso è bloccato.

Devo sorridere a chi entra accogliendolo per indicargli l’area degli sconti? – È una buona pratica, ma c’è il rischio di chiudere la visita sul resto del negozio.

Non faccio nulla e lascio che il visitatore si muova come desidera? – Il rischio è quello di dare un senso d’abbandono alla persona che, probabilmente, non tornerà più perché si sente trascurata.

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IL VIVO CHE AFFASCINA E ATTIRA. L’elenco dei dubbi comportamentali potrebbe proseguire senza centrare il nocciolo del problema. La risposta più corretta è sorprendentemente semplice: fare in modo che possa guardare animali da compagnia cercando accessori. Lo sorpresa scaturisce nel confrontare quest’affermazione con il numero di negozi di pet, nel nostro Paese, che tengono animali vivi in esposizione, intendendo questi soprattutto per cani e gatti perché per gli italiani l’animale da compagnia per eccellenza si chiama cane e gatto, il resto è un contorno. Ebbene: solo il 27% dei nostri negozi di pet offre ai clienti in visione questa tipologia di animali per l’acquisto, mentre la stragrande maggioranza s’interpone in termini di collegamento con il canile. E viene da chiedersi: se, negli Stati Uniti, praticamente il 100% dei negozi (con metrature espositive infinitamente più grandi di quelle italiane) offre cani e gatti in acquisto e servizi di tolettatura, pur arricchiti da altre tipologie d’animali, mentre lo standard italiano si trincera su valori tanto modesti, come si fa a vivere con un cliente che cerca quello che non trova?

FONTE: DATI DIFFUSI ALLA FIERA GLOBAL PET EXPO DI ORLANDO NEL MESE DI MARZO 2014 RELATIVAMENTE ALLE TENDENZE AMERICANE. LA QUANTIFICAZIONE PER L’ITALIA EMERGE DA OSSERVAZIONE DIRETTA

DA NEGOZIANTE A CONSULENTE DI FIDUCIA. Per comprendere questa contraddizione tra quello che vorrebbe un potenziale consumatore e un format di negozio che non risponde alle sue necessità, vi sono svariate obiezioni, tra cui due in particolare sembrano essere incisive:
 la regolamentazione delle Asl (diversa per ogni Regione) è particolarmente limitativa alla vendita d’animali vivi nei negozi di pet oltre all’influenza degli animalisti; gli animali sporcano!
 Queste due affermazioni sono vere, ma occorre osservare che, normalmente, le Asl vietano sì l’esposizione diretta in vetrina degli animali da compagnia, ma non all’interno del negozio: è un particolare importante, che potrebbe spingere il potenziale cliente a visitare l’esercizio commerciale.
 Relativamente alla seconda obiezione, cioè che gli animali sporcano, il ragionamento si fa complesso e particolarmente esposto a qualsiasi tipo di critica. Eppure, il pet shop dovrebbe per primo offrire ai clienti modelli d’igiene e comportamento in una sana gestione domestica dell’animale da compagnia, il che significa saper gestire quello sporco insito nella vita dell’animale, che vive con gli umani: è qui che il negoziante diventa consulente e punto di riferimento per il cliente. Il mancato passaggio da persona che vende a soggetto che consiglia, spiega molte delle cessazioni d’attività che il settore ha sofferto negli ultimi quattro anni.

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IL CLIENTE DONNA. Pronunciata la parola magica “pulizia-igiene”, automaticamente si entra nella sensibilità femminile. Schematicamente: le donne si fermano in negozio 
mediamente più tempo rispetto agli uomini. Si
potrebbe dire che in un esercizio avviato il tempo di stazionamento di una donna, in ambito di pet scegliendo gli articoli e parlando con il gestore, sia intorno ai 20 minuti rispetto i 12 degli uomini.
 Caratterialmente la donna apprezza “essere coccolata” desiderando ricevere spiegazioni sui prodotti come anche i complimenti mostrando le foto del suo cane o gatto. In termini merceologici, le donne dominano l’intero settore dell’igiene e pulizia (su 100 confezioni di shampoo vendute, 95 sono state comprate da donne) a cui seguono approfondite valutazioni sull’eventuale diluizione del prodotto. Rientrano nello stesso interesse la cuccia, le borse, i cappotti, i giochi e i cuscini come un’attenta analisi delle materie prime contenute nei prodotti alimentari. Segue tutto il settore dei farmaci e quanto indicato per la cura dermatologica. Sul volume di spesa non basta affermare che
mediamente lo scontrino per una donna è maggiore
del 10% rispetto agli uomini, perché va differenzia
ta la tipologia d’acquisto. Nel caso di prodotti ali
mentari e in diretta concorrenza con quanto già 
offerto dai supermercati, la donna spende indicativamente un 5% in più. Quando invece, considerando l’arrivo di un secondo cucciolo o per allestire un set d’abbigliamento per cane, lo scontrino medio femminile svetta anche del 20-25% in più di quanto avrebbe comprato il marito.

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IL CLIENTE UOMO. Frettoloso a meno che non venga curato dal gestore di negozio, l’uomo “transita” per lo shop di pet anziché stazionare. Nel caso invece si svolga un’azione specifica e mirata al cliente uomo e soprattutto se questi sia singolo, si riesce a replicare la precedente tipologia comportamentale femminile, trasformando il transito in stazionamento e recepimento delle offerte commerciali in atto. In un lasso di tempo frettoloso, i prodotti solitamente richiesti dai maschi sono i collari, gli antiparassitari e quelli riconducibili alla cura del pelo. Solitamente, in caso di dubbio, l’uomo concorda al telefono gli acquisti con la moglie. Un’area di totale esclusivo interesse maschile è quella dei pesci, acquari e in generale l’acquariologia. L’alimentazione è degnamente spartita, nell’interesse tra uomini e donne, ma c’è una accesa preferenza maschile per gli snack e i premium, ovvero quanto funzionale a viziare anziché alimentare. Anche sui giochi per cane c’è un interesse maschile, a patto che si tratti di prodotti molto robusti e resistenti. Quest’ultimo è il parametro di misura tipicamente maschile nella scelta di prodotto.

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CONCLUSIONI. Un argomento così intenso richiederebbe una mattina intera di riflessione in un corso di vendita per negozianti. Nel presente studio si sono voluti accendere dei punti d’interesse da ampliare successivamente per cui:

– i clienti non sono uguali tra uomini e donne;

– queste ultime spendono mediamente di più in ogni tipologia di spesa;

– esistono delle preferenze di prodotto ben precise che potremmo definire femminili (igiene e abbigliamento) rispetto a quelle maschili (collare, alimentazione da incoraggiamento, acquari/pesci e rettili);

– assodato che all’interno del negozio convivono gusti diversi, a seconda del settore merceologico, l’organizzazione di questo spazio è saggio che segua i canoni estetici tipici del genere di riferimento (maschile e femminile). Questo vuol dire che nell’area femminile, serve un colore di fondo, un’illuminazione particolarmente intensa, una pulizia dello scaffale e del prodotto, quindi una segnaletica più accesa con colori sgargianti e video per filmati dedicati alla cura e uso dei prodotti, diversi da quelli per gli uomini dove si esalteranno le applicazioni pratiche degli articoli e la loro resistenza allo strappo.

Il dibattito è aperto.

 

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