Si scrive Libia ma si pronuncia Cina anche se nessuno ci vuole credere. Prof Carlini

Si scrive Libia e così c’illudiamo, ma in realtà ci sono di mezzo la Cina, la Russia e Turchia. Le recenti elezioni in Tunisia e la decisione libica di basare il nuovo stato sulla legge coranica con i dazi all’import sui manufatti della Lega Arabia cambiano le prospettive dell’industria italiana.

Fino ad ora i nostri imprenditori si sono sempre limitati a considerare solo gli aspetti più propriamente economici, nei rapporti commerciali, trascurando quelli culturali. Ne consegue che non è affatto scontato immaginare di partecipare alla ricostruzione di quanto distrutto dalla guerra e rivolte di piazza, se i nuovi governi del Maghreb si dovessero rivolgere, per affinità di fede religiosa, alla Turchia.

L’Islam non è una religione aperta, ma un sistema di distinguo, per cui si è fedele o infedele e questo aspetto pesa nei rapporti umani, come commerciali. Immaginando un peggioramento nei rapporti tra l’Italia e il Medio Oriente, s’impongono mercati sostitutivi. Su questo piano va segnalato il Sud Africa (unico vero paese su cui puntare per l’intero continente africano), l’India (che a differenza della Cina produce e importa per il proprio mercato interno) e l’Australia (troppo spesso a noi complementare e per di più rientrante negli assetti culturali occidentali come noi siamo).

Questo non vuol dire abbandonare la sponda sud del Mediterraneo, ma che i rapporti in quel contesto (al netto di una oggettiva problematica nella certezza dei pagamenti) non è facile prevedere come possano evolvere.

Certamente un ritorno alle rigidità che la religione impone, non sono un buon auspicio per noi Occidentali, che siamo troppo secolarizzati e nichilisti (usiamo la rabbia e il nervosismo al posto del cervello e della capacità di analisi). Oltre tutto ciò c’è un altro aspetto da considerare: l’influenza delle rivolte arabe sulla Cina.

La struttura dello stato cinese è basata da su una dittatura comunista di vecchia data (50 anni fa) rimodellata e “indurita” dalla rivoluzione culturale. In queste ultime settimane è stato chiamato, nella ristretta cerchia del partito, un imprenditore anziché un politico, ma il sistema poliziesco e dittatoriale cinese è inalterato.

Dall’altro lato è innegabile che i cinesi abbiano goduto di un innalzamento della loro qualità di vita negli ultimi 10 anni. E’ anche vero che a Shanghai, in questo momento, ci sono 200mila alloggi sfitti di cui non conosciamo il proprietario. In realtà sono operai cinesi che hanno investito “nel mattone”, determinando così una bolla immobiliare pronta a scoppiare. Al di là dei costanti cali di PIL mensile, per cui sceso sotto l’8% lo stesso partito comunista teme rivolte e tornando alla nostra logica degli equilibri tra cultura ed economia, viene da se, che i cinesi stanno godendo di una qualità di vita non equilibrato allo standard delle attuali istituzioni della loro società. Il concetto è semplice. Le condizioni di vita della gente devono essere in armonia con la forma di stato in cui vivono, se questo non accade pensare a un collasso sociale è piuttosto logico.

Ecco perché le attuali istanze sociali, partite da Tunisi vanno indirizzate anche verso Pechino.

Con questo tipo di ragionamento investire 1 euro, oggi in Cina, è sciocco (lo era anche prima) e chi superficialmente lo ha fatto sta rischiando. Il guaio è che il rischio non è solo dell’imprenditore azzardato, ma coinvolge noi tutti nell’ennesimo spreco per salvare pochi. Ecco come si presenta il mondo nel prossimo futuro e quali aspetti vanno considerati nei nostri prossimi processi di internazionalizzazione.

Si scrive Libia ma non si sa cosa sia come conseguenze.