Distribuzione dei costi del personale tra produzione e servizi aziendali
Un argomento sul quale tutte le imprese e professionisti hanno sempre a che dire senza punti d’appoggio.
Qual’è la proporzione, in azienda, tra persone impiegate in produzione e quelle in amministrazione-vendita-direzione?
Un imprenditore “sbotta”: ho 130 dipendenti, 27 dei quali negli uffici, sarà corretto? Una domanda di questo tipo introduce a preordinati ordini di grandezza che in realtà non esistono.
Detto in termini più chiari, dopo aver esaminato quanto già scritto in tema d’organizzazione aziendale negli ultimi 30 anni e intervistato sia docenti che cultori della materia, non esiste una formula che indichi quante persone devono essere in produzione rispetto agli uffici e nel commerciale.
Su questo argomento si apre il presente studio una per cercare di trovare un punto d’equilibrio condiviso. Nel frattempo è saggio distinguere tra quanto è noto e più o meno assodato in dottrina da ciò che non è codificato, restando nelle libere scelte dell’imprenditore.
Quanto è assodato in dottrina e nella pratica
Ciò che c’è di certo nella gestione aziendale, è il rapporto tra il fatturato e il numero dei dipendenti. Ad esempio su 12 milioni d’euro di fatturato, nel caso ci siano 130 buste paga, il risultato è pari ad un fatturato per dipendente di 92.307,69 euro. Questo importo va commisurato al costo industriale medio. Ammettiamo che mediamente il costo industriale sia pari a 30mila euro: la differenza tra 92.307 e 30mila è pari a 62.307. Quest’ultimo valore indica quanto “rende” il fattore umano all’impresa; sostanzialmente il doppio di quanto è pagato (sempre in termini di costo industriale).
Affinché l’azienda sia sana, la resa dovrebbe essere non il doppio, bensì molto di più, ovvero 7-8 volte il costo industriale.
Nell’esempio indicato, se il costo medio per dipendente è pari a 30mila e ognuno dovrebbe rendere 7-8 volte di più del suo costo, il fatturato dell’impresa dovrebbe essere pari a 21 milioni d’euro anziché 12. Questo vuol dire che o ci sono troppe persone o si fattura poco: comunque l’impresa ha un disequilibrio tra numero di dipendenti e lavoro svolto/venduto.
Una percentuale d’incidenza adeguata del costo industriale del personale sul fatturato dovrebbe oscillare tra il 14 e il 18% massimo. Tornando al nostro caso, il costo industriale del personale dovrebbe essere, su un fatturato di 12 milioni, pari a 2,160 milioni invece degli attuali 3,9. Come regolarsi?
Gli ordini di grandezza indicati non sono tassativi, ma vanno adattati. Gli estremi sono tra imprese altamente automatizzate e altre a forte intensità di mano d’opera. Ne consegue che non si può applicare “la formula magica” come se fosse un compito in classe di scuola. Per inciso, l’impresa manifatturiera, qui indicata a titolo d’esempio, gode di un utile di 200mila euro, nonostante abbia una fortissima incidenza del costo del personale sul fatturato, ma si trova in una tipologia di mercato dove i prezzi di vendita sono alti, sfruttando il marchio made in Italy, esportato all’80%. Nel caso invece la stessa impresa agisse sul mercato domestico e con prezzi molto allineati alla concorrenza, probabilmente non esisterebbe più da tempo.
Cosa considerare da questo ragionamento? Vediamo le fasi step by step:
a) considerare il rapporto tra il fatturato e il numero di dipendenti;
b) comparare il risultato del rapporto con il costo industriale medio;
c) verificare se la differenza tra questi due valori s’avvicina alle 7-8 volte il costo industriale sostenuto. In caso contrario non disperare, ma iniziare a capire le dinamiche interne all’azienda, perché non è automaticamente scontato che ci si trovi di fronte a un sovraccarico di personale, ma gli estremi per una verifica ci sono;
d) sicuramente vanno considerati i seguenti parametri:
– un call center ha un’incidenza del costo del personale sul fatturato tra il 22 e il 27%,
– un’impresa edile intorno al 25%,
– un’azienda manifatturiera altamente robotizzata tra l’11 e il 15%,
– un’azienda manifatturiera poco meccanizzata tra il 15 e il 19%,
– un’impresa siderurgica o un centro di servizio; seguono interviste in corso di realizzazione.
Si tratta di generalizzazioni perché va considerato anche dove il prodotto venga collocato (Italia o estero) e con quali margini di prezzo (risicato all’osso per confrontarsi con la concorrenza o nel ramo moda, ad esempio, dove gli spazi di decisione sul prezzo sono ampi?)
Il ragionamento ha però un difetto di base, che risiede nel conteggio del costo industriale medio. Nel caso ci siano posizioni molto diversificate (operai e manager) e quest’ultimi rappresentino un gruppo importante per numero e valore di retribuzione, servono dei correttivi di ponderazione che assegnino il giusto peso tra operai, dipendenti, quadri, manager e titolari. Ovviamente questa necessità non è sentita quando più dell’85% delle buste paghe appartengono a una sola categoria, come normalmente avviene e gli impiegati/proprietari hanno delle retribuzioni non particolarmente elevate.
Quanto non è affatto certo e altamente variabile
Le scelte dell’imprenditore (comandante di nave in plancia con un mare solitamente in burrasca) restano sovrane. Tradotto in termini pratici la suddivisione del personale, tra le diverse aree dell’azienda: produzione/qualità e commerciale/uffici, risponde a una formula a geometria variabile che l’imprenditore adotta di volta in volta, a seconda del suo disegno strategico. Questo vuol dire che non ci sarà un ordine fisso tra operai e dipendenti, ma grazie a un’accorta politica del personale nell’uso di contratti a tempo determinato che soprattutto a posizioni polivalenti tra venditori e personale d’ufficio, lo schieramento della forza lavoro si dovrebbe adattare ai diversi momenti congiunturali.
Interviste
La voce del commercialista aziendalista: Riccardo Ramuglia.
«L’argomento in dottrina non è affrontato in forme chiare. C’è qualche studio alla voce “diseconomie di scala”, che indica, mediamente, che a ogni 16 operai ci sono 4 quadri e 1 manager. Sono dati molto generici che vanno considerati in termini ponderati, il che vuol dire che il manager, guadagnando di più degli operai, incide, molto spesso sul totale di quella unità lavorativa, il 40%. Quale la formula giusta? Non esiste, va sperimentata da caso a caso. Si entra, con questo argomento, in un campo dove il consulente deve lasciare la scrivania e condividere qualche giorno con il cliente, per capire e poter progettare degli organigrammi adeguati, completi di mansionario e carichi di lavoro».
La voce dell’imprenditore: Enrico Vettorato (Alba Siderurgica).
«In Italia siamo al 50%. Qualcuno ci dice che siamo sovradimensionati. In realtà per movimentare la merce esiste ormai una logistica più che collaudata, oltre a non essere più soggetti a quei picchi di consegna merci di 7-8 anni fa. All’estero, precisamente in Croazia, se si considera solo il personale impegnato si potrebbe pensare a un 60% in produzione, che in realtà va ridimensionato al 50% se si considera il lavoro di direzione svolto dalla sede italiana. Concludendo: l’ordine di grandezza, nel nostro campo, è per una metà di personale in produzione e l’altra in ambito amministrativo, vendita e direzione».
La voce dell’imprenditore – area produzione: Mario Bin (Pietro Bin).«Siamo al 50%. Pur avendo valutato più volte questo equilibrio tra operativi e amministrativi-personale di vendita, l’onere degli adempimenti di legge non consente di poter ridurre il carico amministrativo».
La voce dell’imprenditore – area produzione: Enrico Bettuzzi (Oiki).
«Pensando a com’era l’azienda 20 anni fa, sia in amministrazione che in produzione, non c’è una gran differenza nel numero d’addetti. Ciò che è invece letteralmente esploso riguarda il servizio alla vendita. Da noi ci sono due unità che tutto il giorno provvedono solo all’emissione dei certificati d’analisi di produzione che “non ti paga nessuno”. Considerando le necessità della qualità e del servizio al cliente, che rappresentano i veri protagonisti di questi ultimi anni, la proporzione tra chi è impiegato in produzione e gli altri profili d’impiego del personale in Oiki, siamo al 50%».
La voce dell’imprenditore – settore commercio in rottami: Sonia Zinfolino.
«Noi commerciamo rottami nell’area torinese e siamo in cinque. Operativamente tre di noi sono nell’area amministrativa/commerciale/direzione e due nella movimentazione merci. Percentualmente la parte di produzione vale il 40% del totale. Giusto o sbagliato, abbiamo trovato questa scelta vincente perché il vero impegno per noi è la relazione con il cliente e le incombenze amministrative, più che la manualità nel lavoro. Ho letto con grande interesse gli articoli già pubblicati sul sito relativi alla differenza tra società liquida e solida, riferendo le osservazioni di Zygmunt Bauman. In effetti è vero, il nostro lavoro, benché commerciamo in rottami, è meno “fisico” di quanto s’immagini e molto di più di relazione commerciale e burocratica (appunto liquido)».