La reazione alla crisi nella sua onda lunga. In pratica ancora colpisce a più anni di distanza! Strategie e iniziative. Di Giovanni Carlini sociologo aziendale

La reazione alla crisi coglie un aspetto comportamentale dell’imprenditore. Coloro che non hanno saputo immaginare nuove vie hanno chiuso. Spesso gli imprenditori italiani considerano l’azienda come una “fabbrica di denaro per la loro famiglia”, un bancomat! Uno strumento di ricchezza (immeritato) dove non aggiungere denaro quando c’è la crisi. In pratica si prende sempre ma non si da mai. Il mancato rifinanziamento delle aziende è una delle cause più diffuse di chiusura.

La reazione alla crisi necessita di programma. Dove si sta andando, quali itinerari percorre, quando fermarsi e cosa fare. In una parola serve un piano di marketing che stabilisca a 6, 12 e infine 18 mesi che cosa si voglia fare. E’ chiaro che un piano per reggere richiede delle verifiche mensili.

Un piano di marketing si scrive e studia in 20 giorni, costando intorno ai 5.000 euro. Fatto questo serve rivedere l’organigramma e il mansionario.

La domanda che ci si pone nella revisione è semplice e drammatica. Siamo certi che per raggiungere gli obiettivi servano le stesse forze umane in organico fino a qualche mese fa? L’obiettivo qui non è tagliare e “mandare a casa le persone”, al contrario qualificarle e addestrarle affinché alzino la produttività.

Assicurato l’indispensabile passiamo ora a qualcosa di più complesso.

Noto sempre di più come NON si comunichino gli obiettivi ai dipendenti. Questi pur lavorando non sanno dove l’azienda stia andando. In genere al lavoratore non interessa lo sviluppo aziendale ma non è mai stato realmente coinvolto.

L’obiettivo di questa affermazione è semplice: riduzione dei costi di gestione. Una contrazione da un minimo dell’8 a un massimo del 16% del costo d’azienda e un incremento della produttività.  Mediamente quest’ultima di un 2 o anche 5%.

Collaborando anche sul piano della gestione del personale con più aziende riscontro un’anomalia. E’ rarissimo che intervistando a caso degli impiegati o operai,  sappiano rispondere quanto la loro azienda fattura. Quindi neppure quali obiettivi l’impresa si pone, dove si stia spingendo in termini di mercato e prodotto. Per ovviare a ciò serve una politica del personale svolta da persone adeguate. In “soldoni” ciò si sviluppa con formazione interna a costo zero (vedi fondi INPS)

Ma non è questo il passaggio più importante.

Si vorrebbe che in un nuovo contesto di comunicazione aziendale al corpo vendita si chiedesse:
– programmi di visita settimanali ai clienti;
– al termine della settimana un report sui risultati conseguiti e gli argomenti utilizzati. Questo distinguendo la tipologia di cliente;
– stabilire che l’agente di vendita prima di mettere piede da un cliente ne studi la storia, il sito web, i bisogni. Quindi modifichi il suo presentarti in ogni luogo adeguandosi.

Affrontato questo passaggio “sui commerciali”, serve un’altra novità: non far affrontare la gestione dell’insoluto agli amministrativi!

Questi non sono personale addestrato a ben relazionare con il cliente. Al contrario serve aprire una gestione di custmer care.

Praticamente si assume un’apprendista e lo/la si addestra ad essere metà commerciale e amministrativo. Sarà questa nuova figura a gestire l’insoluto.

La premessa all’insoluto è che nulla accade per caso, ma è solo la degenerazione di un lavoro non fatto sul cliente. L’insoluto non avviene solo perché non ci sono soldi o lo si è subito a sua volta, ma è una scelta tra chi pagare prima e meglio. Quindi chi subisce l’insoluto è stato scelto come non fondamentale. Vuol dire che i nostri commerciali e la stessa immagine d’impresa ha fallito nel suo scopo. Non basta vendere ma serve, molto più spesso, incassare.

Armati con questi argomenti si può organizzare la reazione alla crisi. Buona fortuna a tutti!