Perché non ne usciamo dalla crisi se non dopo un alto numero di anni?

Analizzano il perché non ne usciamo dalla crisi senza considera un periodo piuttosto lungo richiede delle analisi. Quando la crisi si mostrò nell’estate del 2008 e svelò tutta la sua violenza nell’autunno a seguire, fu abbozzata una previsione: prima di 7 anni non ne usciamo. Giusta o sbagliata quella proiezione va spiegata. Prima di tutto mi scuso con il lettore per vedere le cose sempre da un punto di vista diverso dagli altri; lo so, è il mio peggior difetto.

Da quanto ho studiato e vissuto in prima persona (ero negli Usa nell’estate del 2008) la crisi non è affatto economica, ma sociale. Voler curare una patologia con le medicine sbagliate è la peggior cosa si possa fare, anche perché allontana la guarigione. Infatti tutti i provvedimenti in atto in Occidente sono solo economici per curare gli effetti del morbo, ma non la radice che resta sociologica: abbiamo troppo voluto in così poco tempo esagerando su “tutta la linea”.

La presenza ancora massaccia della speculazione sui mercati è la prova di una crisi ancora in “alto mare”. Su questo versante nulla è stato fatto tanto che lo stesso Presidente degli Stati Uniti, il Signor Obama, ha di fatto perso la presidenza per aver sottovaluto il bisogno di una regolamentazione dei flussi di denaro sul mercato.
Cosa significa speculazione? Se non si spiegano i concetti, si rischia di rimanere sempre nel vago e non si riesce neppure a capire il senso di provvedimenti del tipo “Basilea 3”.

 

Per capire di cosa stiamo parlando
Prima della crisi subprime, esistevano da parte delle banche dei requisiti minimi di capitalizzazione (leverage) ovvero la quantità di capitale che si poteva prestare e impegnare rispetto al capitale sociale della banca . Queste norme erano note come “regole di Basilea”.

Se nelle banche italiane, gestite con una certa prudenza, raramente è stato superato il rapporto di 8:1, nelle investment bank americane (completamente libere da ogni vincolo) si è giunti addirittura a 40:1.

Le banche commerciali USA (sottoposte alla supervisione della FED, paragonabile alla nostra Banca d’Italia) si sono posizionate su un rapporto di 15:1.

In Gran Bretagna la Northern Rock, la prima banca fallita e nazionalizzata, al momento del crac, aveva attività totali impegnate per 58 volte il suo capitale sociale, pur essendo assoggettata al controllo della Financial Service Autorithy.

Il punto da chiarire è: perché, a prescindere dalla loro inadeguatezza, i sistemi di sorveglianza non hanno funzionato nonostante i nostri studenti studiano finanza aziendale! Forse c’è qualcosa in questa materia che non funziona, infatti non spiega perché non ne usciamo dalla crisi se non dopo 7-15 anni.

Il peso dei crediti problematici (ecco perchè non ne usciamo prima di 7-15 anni)
Le banche europee soffrono di prestiti concessi il cui rientro è a rischio; si chiamano crediti problematici. Una situazione che si è aggravata con la crisi.

Al 30 giugno 2010 le 13 banche quotate a Piazza Affari soffrivano, al netto di rettifiche 90,138 miliardi di prestiti problematici. Un anno prima ammontavano a 65,5 miliardi. In termini percentuali sul totale, se nel 2009 i prestiti deteriorati erano il 4,52% nel 2010 sono saliti al 6,22%.

Nell’ambiente si ritiene non preoccupante questa tendenza, anche se non si può nascondere che in assenza di un rilancio dell’economia, tutto diventa più difficile. Ecco il punto cruciale! Anche le banche tedesche sono fortemente esposte e in crisi come quelle italiane, ma si spera nel superamento della crisi.

Se questa, come sembra, non dovesse confermarsi, allora il quadro generale e quello bancario in particolare, si farebbe veramente difficile, ipotizzando scenari “americani”. Più specificatamente, le banche esposte in Italia hanno valori “medi”. Nel dettaglio il Banco Popolare è tra gli istituti che hanno visto salire di più, semestre su semestre, i propri crediti deteriorati netti: da 9,9 a 9,2 miliardi. Su questo valore gioca molto però il consolidamento di Italease. Segue Intesa San Paolo che al 30 giugno 2010 aveva 20,8 miliardi di prestiti problematici, anche se sembra che ci sia un miglioramento verso settembre. Su questa strada è avviata anche la Popolare di Milano.

Analizzando il quadro complessivo, una distinzione tra crediti inesigibili e tipologia di banca, balza all’occhio. Gli istituti di credito locali, soffrono un basso rapporto tra prestiti dubbi su impieghi. Il Credem, per esempio, è al 2,8% mentre la Popolare di Sondrio è più impegnata, al 3,2 per cento.

Ciò attesta un concetto di fondo: guardare negli occhi colui a cui si presta del denaro, è una procedura più sicura rispetto gli automatismi di back-office, nell’erogazione del credito applicato dalle grandi istituzioni bancarie del paese.

 

Perché un nuovo accordo

Perché una Basilea 3, non bastava la 2? In realtà il sistema bancario europeo è a rischio di collasso, quindi richiede delle profonde e radicali modiche, affinchè possa sopravvivere.

Negli Stati Uniti sono ormai oltre 100 gli istituti bancari che nel solo 2010 hanno già fallito. Una selezione di questo tipo, in Europa, non è avvenuta, semplicemente perché meno esposti. Per salvare “il sistema”, anche se con un colpevole ritardo di oltre 2 anni dal fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, è stato pensato di lanciare un progetto di ricapitalizzazione delle banche europee, noto con il nome di Basilea 3.

Non si tratta di un progetto condiviso da tutti; anzi c’è una forte contrapposizione, considerando anche che gli economisti ritengono il documento tardivo e non adeguato, per evitare un nuova ricaduta nella crisi.

 

Conclusione
La stalla è vuota ma le porte si chiudono solo adesso.

La speculazione è la metastasi della nuova economia. Quali aziende si salveranno?

Quelle che sanno tutti i giorni fare il loro mestiere senza azzardi bensì un olimpionico decisionismo e per far questo serve, in termini caratteriali e comportamentali tornare agli stili dei nostri padri e nonni con la sagacia di un uomo moderno.