Studiando la tipologia classica, ovvero la genesi della crisi aziendale, servono spunti di meditazione che sono stati trovati anche a Kansas City, Missouri presso il National WW1 Museum at Liberty Memorial.

L’esperienza e la maturità nascono dalla capacità di saper osservare fatti noti in maniera diversa, traendo insegnamenti ancora più attuali e pertinenti.

100 anni fa, nel 1914 esattamente il 3 agosto, la fretta dominò scelte importanti.

Ciascun paese europeo sentì d’avere dei torti da sistemare e lo scontro apparve come la soluzione migliore, né più né  meno come nel Medio Oriente d’oggi e in particolare tra lo Stato d’Israele con la striscia di Gaza.

Non solo, ma oltre alla rabbia, dell’uno contro l’altro, furono anche commessi dei clamorosi errori, non ritenendo l’avversario in grado di schierare nell’attacco forze di seconda scelta. Fu esattamente quest’ultima a fare la differenza: le sorprese della vita!

Gli enormi errori che condussero al 1° conflitto mondiale, oggi qui celebrati, e tradotti in azioni per le aziende italiane, vengono spesso ritrovati, uno ad uno nella crisi aziendale classica pur non considerati tali dagli stessi imprenditori. Fortunatamente questi sbagli non sono in grado di scatenare una guerra, ma generano sicuramente disagio e spesso la fine dell’attività che si mortifica in una crisi aziendale prolungata nel tempo.

Ritornando al 1914, un altro tratto caratteristico di quel periodo, gravido di conseguenze, fu il fissarsi su una sola scelta senza poterla più successivamente modificare, anzi che andava assolutamente mantenuta a tutti i costi pena l’onore e la catastrofe. Senza questa caparbietà non si possono spiegare 9 milioni di morti, 15 milioni di feriti e altri 20 milioni deceduti per la successiva e conseguente febbre spagnola, emersa come epidemia probabilmente dagli sconvolgimenti che il terreno subì nel nord della Francia e in Belgio, in seguito agli intensi cannoneggiamenti con milioni di granate esplose. In tutto ben 44 milioni di morti, principalmente in Occidente a cui seguirono quelli della seconda guerra mondiale.

L’incaponirsi su una sola scelta fu la caratteristica principale di quel tempo ma non l’unica. Ad esempio la mobilitazione (chiamata alle armi dei civili) non fu considerata un’azione di minaccia o deterrenza, ma una volta avviata, doveva per forza di cose essere condotta fino al suo completamento. Questa caparbietà nel seguire fino a conclusione un progetto, fu il limite “e la potenza” di un nuovo strumento decisionale sorto agli inizi del XX secolo: lo Stato Maggiore.

Purtroppo le aziende non sono dotate di uno strumento simile come mancano anche di un piano di marketing! Più nel dettaglio e per spiegarsi meglio, uno Stato Maggiore significa un gruppo organizzato di specialisti in grado di seguire singoli problemi, che tradotto ai tempi moderni comporta la compresenza di un direttore commerciale, uno di marketing, il direttore amministrativo, del personale, qualità e alla produzione, quindi un direttore generale, un amministratore delegato e infine un consiglio d’amministrazione che includa ovviamente la proprietà.

Tutte queste funzioni possono essere raggruppate ma non eliminate: ecco il punto critico! In linea di massima è meglio che la famiglia di proprietà non agisca a livello direttivo, ma affermare questo principio, significa “offendere” la stragrande maggioranza delle imprese padronali italiane. La motivazione è semplice. La figlia laureata, in posizione di direttore di marketing, ad esempio, comporta un peso in azienda perché non motivata ad aggiornarsi, quindi non studia, non produce idee, però pretende arrogantemente di gestire l’azienda, per il solo titolo di parentela. Questi personaggi sono pericolosi, perché congelano una posizione che in realtà dovrebbe spumeggiare in idee e prospettive.

L’azienda che invece si dota di manager (personale specializzato nelle diverse attività) cambiando frequentemente e in questo cercando il meglio, trasforma in “Stato Maggiore” questo gruppo di cervelli, nel momento in cui li riunisce una volta al giorno per 20-25 minuti e una alla settimana per fare il punto generale della situazione e infine ogni mese, per stabilire la rotta da seguire sulle grandi decisioni e l’analisi mensile degli scostamenti budget. Ecco cosa vuol dire uno “Stato Maggiore” in un’azienda moderna, benché padronale. L’uso ragionato del piano di marketing esprime la sintesi e l’applicazione di tutto ciò. Come l’istituzione del concetto di Stato Maggiore espresse nella cultura militare, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il simbolo del nuovo per affrontare la complessità del moderno, l’ingresso dei manager nelle imprese padronali italiane rappresenta quella rivoluzione auspicabile per sopravvivere al nuovo. Forse quest’ultimo concetto non è chiaro e necessita d’essere meglio illustrato.

La rivoluzione francese “inventò” l’esercito del popolo. Napoleone marciò in Europa con 600mila uomini: un record! Erano però soldati che si muovevano a piedi o a cavallo. La rivoluzione industriale, ampliando la base demografica e grazie alle ferrovie, giunse a poter impiegare 1,2 milioni di uomini e mobilitarne 3 in caso di guerra. Elencando gli errori commessi su questo piano è famoso il ricordo di Napoleone 3° quando, nel 1859 aiutando l’Italia, trasferì 120mila soldati senza alcun supporto logistico inteso in viveri, armi, munizioni e mezzi di trasporto: fu un fallimento. Al contrario i tedeschi, con Moltke il vecchio, brillarono nell’utilizzo organizzato di milioni di uomini in armi, riunificando la Germania in un unico stato e battendo anche la Francia nel 1870. Il segreto del successo fu l’organizzazione, vettovagliando e armando milioni di persone impiegate come soldati in un esercito. Ciò fu possibile grazie alla costituzione di un gruppo d’ufficiali specializzati nei singoli settori logistici: lo Stato Maggiore. Questo meccanismo “perfetto e bellissimo” s’inceppò, sempre in Germania, con Alfred von Schlieffen tra il 1891 e il 1905 e successivamente con il nuovo capo al vertice, perché si chiuse in se stesso, senza dialogare con i politici e la diplomazia, espugnando la guerra dall’incertezza.

I piani progettati allora, dallo Stato maggiore tedesco, erano considerati perfetti e minuziosi, così tanto, che non riuscirono a funzionare in nessun caso e non perché non prevedessero margini d’errore, solo perché studiati a tavolino, avulsi dalla realtà.

Ad esempio i militari tedeschi di quel tempo, non seppero che i loro diplomatici avevano firmato accordi internazionali sulla neutralità del Belgio e quando il governo capì l’errore, non ebbe il coraggio d’intervenire per rispetto all’autorità.

Concludendo, le premesse alla prima guerra mondiale furono la rigidità, la stupidità, la fretta, la paura, la convinzione che il peggio sarebbe stato meglio del vissuto, il bisogno di cambiamento e la speranza in un mondo migliore, oltre alla fame di possedimenti coloniali (senza comprendere gli studi già allora presentati sulla non convenienza economica nelle colonie) e una nascente opinione pubblica che urlava il bisogno di dire qualcosa, passando da un estremo all’altro e l’autorità incapace d’educarla. Anzi nel tentativo d’indirizzare verso valori condivisi l’intera popolazione, tutte le autorità europee, alla fine spinsero verso la guerra per misurare il coinvolgimento dei giovani, operai, intellettuali e la massa-opinione pubblica in generale. 

Tutto questi particolari hanno un denominatore comune: l’assenza di professionalità, ovvero di manager collocati al posto giusto per gestire sia le crisi che l’ordinario.Si conferma come la crisi aziendale non si sviluppi per caso ma abbia una precisa origine nell’immaturità della classe dirigente aziendale.

Ora come allora mancano i tecnici. Se all’inizio del secolo forse erano pochi, adesso ce ne sono anche troppi, ma non collocati nei posti giusti.

L’impresa padronale è uno di questi posti ancora sguarniti di tecnici e manager, perché afflitte dal “faso tutto mì”. Con questa logica i morti d’allora sono i disoccupati d’oggi. Forse dovremmo imparare dal passato per evitare di commettere nuovamente gli stessi errori. Che futuro aveva un esercito nel 1914 senza Stato Maggiore come quello ottomano? E infine, che prospettive restano all’attuale impresa padronale senza manager?

Giovanni Carlini