QUESTA VERSIONE DEL TESTO E’ STATA APPOSITAMENTE MODIFICATA PER CONSENTIRE UNA MIGLIORE LETTURA ALLA COMUNITA’ DEL PARKINSON

Perchè diffamare chi la pensa in maniera diversa sulla malattia e specificatamente sul concetto che ruota intorno a i prigionieri da Parkinson?

E’ in corso un’intensa attività per diffamare chi la pensa diversamente nel mondo del Parkinson e questo mi riguarda personalmente: perchè accade questo?
Oltre ad aver già definito la differenza tra malato di Parkinson (chi è in preda alla conflittualità sociale) e i prigionieri da Parkinson (uno spirito sano in un corpo malato) dove ovviamente i primi sono gli isterici che gridano allo scandalo in preda a crisi di stabilità comportamentale, vanno finalmente raccontati i fatti per cui sono criticato in forme non civili, lasciando che lo studio della malattia sia rallentato e il benessere delle persone posto in secondo piano.

I Fatti

La figura del sociologo entra nel mondo del Parkinson nel mese di ottobre 2014 a Milano.
Un grande luminare della scienza sociologica, specializzato nella sociologia della sessualità, viene convocato dai massimi responsabili delle Associazioni di categoria, per iniziare a studiare il punto di vista sociologico del morbo di Parkinson, finalizzato a scrivere un libro per diffondere nel Paese la reale condizione del malato. A questa riunione e alle successive, ho avuto l’onore di partecipare. Tutto cominciò con: vieni con me? E io risposi: a Sua disposizione Professore.
Nel corso delle diverse riunioni, avvenute in più contesti e con persone diverse, ho assistito alla trasformazione dell’idea iniziale, per quanto non fosse stata effettivamente cristallizzata (com’è ovvio quando ci si introduce per la prima volta in un terreno sconosciuto) in una forma tale per cui me ne sono dissociato. Da qui la mia “colpa”.
In particolare si è ritenuto lanciare un normale processo di rilevazione statistica sociologica, contando il numero di malati su scala nazionale, al fine di descrivere la reale condizioni de i prigionieri da Parkinson in Italia, interessando tutte le agenzie nazionali e raccogliendo i dati da statistiche già esistenti o integrando dove necessario puntando anche a un campione significativo, che possa statisticamente esprimere il dolore dei malati. Si tratta di un processo che parte dall’alto per studiare quanto sta accadendo. Tutto sommato non rappresenta nulla di particolare, è normale prassi come una ricerca di mercato.

Qui nasce la divaricazione che spiego in 2 punti

a)  la tecnica di rilevamento dall’alto è perfetta se dovessimo capire quanta birra viene bevuta in estate, ma nel caso di dolore umano e in particolare riferito al Parkinson, non la ritengo adeguata per aspetti morali. Al contrario è necessario mobilitare i prigionieri da Parkinson chiedendo cosa vogliono si domandi, come vivono, dove, quanto pagano di tasca loro le cure, che conseguenze soffrono nella vita sociale e personale come genitori e coniugi e quindi che si contino tra di loro. Da questa “mobilitazione”, dovrebbe nascere una coscienza collaborativa che sdogana l’ex malato di Parkinson in una persona a pieno titolo, per quanto sofferente, ma integrata in un nuovo tessuto sociale, virtuale e reale, che attraverso “la comunità” offra la dignità di un contatto stabile nel tempo con gli altri. Il libro bianco, anziché uno studio dall’alto come attualmente progettato, emerge come una naturale conseguenza della “mobilitazione”. In pratica avremmo il famoso libro bianco sul Parkinson come risultato accessorio e non certamente rilevante rispetto alla partecipazione corale di tutti in ogni passaggio della ricerca.
Per realizzare un piano di coinvolgimento di questo tipo, non possono che essere interessate meno di 20/25mila persone: i prigionieri da Parkinson.
Ovviamente se la finalità del libro bianco è solo quella di comparire in qualche congresso e sulla stampa, volantinando dei concetti e dei dati ai fini d’immagine e pubblicità, tutto questo ragionamento sul coinvolgimento dei singoli prigionieri da Parkinson, decade!
In pratica la grande differenza è: serve un lavoro formale o sostanziale? Chi dev’essere il protagonista del libro bianco, il direttivo che l’ha commissionato o la qualità esistenziale de i prigionieri da Parkinson stimolati a una vita migliore attraverso l’integrazione? Serve un libro o una presa di coscienza collettiva?

b) Secondo punto. A fronte di una spesa oggettiva di 120-130mila euro si è puntato sui 200-250mila euro. Per questo motivo, mi è stato raccontato ma non ne sono certo, è stata appositamente fondata una società, in centro Italia, cogliendo i fondi governativi stanziati per rilanciare l’imprenditoria nelle aree depresse del Paese. La mia colpa, che ora mi si rinfaccia come se fossi un personaggio squalificante, è stata di presentarmi al direttivo dell’Associazione di Parkinson, affermando chiaramente che avrei potuto svolgere la stessa ricerca partendo dal basso, dai malati anziché dall’alto, a metà prezzo rispetto quello chiesto e concludendo in 14 mesi, mobilitando l’intero Paese, ovvero tutti i prigionieri di Parkinson d’Italia. Anch’io sarei giunto a un Libro bianco, ma non come unico prodotto da vetrina per esporlo alla stampa, bensì come sottoprodotto di un grande lavoro di comunità, addestrando i singoli prigionieri per collaborare con altri prigionieri, cercando le domande giuste ottenendo il corretto quadro d’insieme. Come minimo, qui mi ripeto, almeno 20/25mila persone, i prigionieri da Parkinson coinvolti.
A questo punto rivolgo io una domanda a tutti: criticatemi perchè posso essere un visionario, un teorico, che il mio modo di vedere le cose non conduce a nulla perchè comunque si è destinati a morte e non importa la qualità della vita vissuta benché malati, ma perchè mancarmi di rispetto? Possibile che solo avere idee diverse giustifica a dei teppisti (in realtà malati nel senso completo del termine) l’offesa verso di me e che questa non produca un’immediata reazione da parte degli altri per isolarli e azzittirli? Ma siamo nel Far West? Dove le più elementari regole della civiltà? Che forse il Parkinson è stato così forte da spegnere anche la civiltà? Io non lo credo, penso a un mondo migliore per tutti i prigionieri da Parkinson.
Con insistenza mi si accusa d’essere impreparato e concordo su questo punto di vista, è vero. Potevo studiare di più nella vita. Ho solo 4 lauree e appena 3 libri tra pubblicati e in corso di stampa nel 2015. Chiedo scusa a tutti, avrei dovuto studiare di più, insegnare di più, scrivere di più però mi sto organizzando e imparando dagli stessi i prigionieri da Parkinson che mi allevano, addestrano e aiutano a vivere di più, capire di più ed essere di più. Tutto qui. Possiamo ora mettere da parte la non civiltà e iniziare a ragionare? Auguriamoci buon lavoro!
Giovanni Carlini un ignorante che impara.