La Cina e la fine della prima globalizzazione 

La Cina entra a far parte della nostra vita quotidiana con la sua ammissione al WTO l’11 novembre 2001. Due mesi dopo l’attacco sul territorio degli Stati Uniti, da parte dell’islamismo fondamentalista. Da allora sono cambiate molte cose e non in meglio per l’Occidente. Al contrario per il paese asiatico è stato un successo. Per la prima volta, nella storia millenaria della Cina hanno smesso di morire per fame e carestia.

Il numero di cinesi che è stato strappato alla povertà è a oggi 300 milioni. 200 milioni sono addirittura ricchi e ovviamente inscritti al paritito. Per i restanti 700 milioni, comunque le nuove condizioni di vita sono migliorate. Igiene, cibo, abiti e abitazioni rappresentano un salto di qualità rispetto la povertà millenaria della Cina.

Ogni rapporto pubblicato sulla stampa, sulla Cina, non va oltre queste considerazioni. Si celebrando i fasti di un PIL in strepitosa crescita. Qualche cenno all’inflazione in forte accelerazione, quindi del surplus commerciale. Nessuna testata s’avventura nel descrivere l’eventuale instabilità sociale del “continente Cina”.
In effetti “per scoprire l’altra Cina” sarebbe il vero titolo di questo articolo.


Prima del 2001 il grande paese asiatico era molto chiuso come tutte le dittature, soprattutto quelle comunista.

Oggi, pur restando dittatura, la Cina si è effettivamente aperta. Certamente soffre la scarsa considerazione internazionale (vedi frequenti rivolte di piazza). Va ricordato come sul piano sociale interno la struttura economica sia chiusa, di stile feudale e controllata dal partito.

Il grande dilemma è quando questo modo di vivere imploderà. In altre parole siamo in attesa della rottura della Cina come la conosciamo oggi.

Ci saranno forti dissesti sociali e una generalizzata ritirata di tutte le imprese occidentali “corse” in Cina. L’ingenua corsa alla Cina da parte delle imprese è stata per due motivi. Produrre a bassissimi costi (non più credibile dopo le riforme del lavoro attuate dal governo cinese). Quindi l’importante impennata dei costi di trasporto.

Quindi puntare all’immenso mercato interno cinese. Resta ancora oggi interessante, a patto che non si realizzino quelle rivolte sociali i cui segnali cominciano ad essere netti.

I quesiti che si pongono ora sono di due tipi:
a) perché l’assetto sociale interno cinese dovrebbe implodere;
b) perché cresce l’ostilità verso il “made in China”(i cosiddetti products free from China);
Alla prima domanda è relativamente semplice rispondere.

Ogni dittatura è in grado di resistere se non si confronta con gli altri assetti sociali esistenti nei paesi confinanti. Il governo cinese è una dittatura a partito unico, di matrice comunista. Il futuro di un partito comunista è compromesso per “definizione politologica”. Si apre così una stagione d’instabilità interna molto drammatica, perché c’è un’intera classe dirigente da sostituire. Ovviamente in un quadro del genere ci sono sempre gravi problemi di corruzione.

Va ricordato quando Gorbachev aprì alla “Perestrojka”. Per sfamare l’allora Unione Sovietica, ci furono carichi di riso gratis pena una nuova rivoluzione per fame.

Quanto fu osservato in Russia è da attendersi dalla Cina nei prossimi anni.

Una differenza tra il collasso russo e il prossimo cinese va però osservata.

Il collasso dell’allora sistema sovietico fu causato da motivazioni economiche. Il prossimo cinese trova radici e motivazioni nel malessere sociale e politico.

Le prove del malessere cinese sono diverse. Iniziano con le reazioni che la popolazione civile verso il governo centrale in occasione del terremoto nel sud-est del Paese. Proseguono con le rivolte tibetane, che ancora non puntano all’indipendenza, solo al riconoscimento culturale in una “regione a statuto speciale”.
Passando al secondo quesito, la crescente ostilità verso il “made in China”. Deriva da diversi aspetti riconducibili a una sostanziale delusione per gli esiti della globalizzazione (la prima globalizzazione).  La globalizzazione ha fallito le sue promesse di benessere. Non va dimenticata la scarsa qualità dei prodotti cinesi.

Negli Usa, Wall Mart ha optato per prodotti “made in Usa” al posto di quelli cinesi per non perdere clientela. Il tutto nell’assicurazione che il made in America non sarà mai inferiore al 20% dell’offerta.

Ora la domanda è: cosa fare nel caso di una PMI presente in Cina?
Per chi è già in Cina, quanto scritto è noto. Nessuno però ha voglia di confermarlo. In relatà l’idea è di chiudere per tornare in Italia.

Diverso è se le PMI, già operanti in Cina, abbiano convertito la produzione al mercato cinese. In questo caso c’è da scommettere sui prossimi 10 e 20 anni in una nuova Cina democratica ancora da formarsi.

Chi ancora non ha deciso le strategie d’adeguamento al mercato deve guardarsi intorno. Va considerato come la nuova globalizzazione tenda a tagliare fuori la Cina. Il riorientamente è a vantaggio dell’Est Europeo, del Nord America (in particolare il Canada) e l’India.

Se questi sono i nuovi mercati di sbocco, abbandonare la Cina è una logica conseguenza. Lo è per coloro che producono per re-importare in occidente. In pratica la peggiore forma di globalizzazione.

Gli scenari futuri sono per una forte contrazione d’export cinese. Il mercato occidentale sta rigettando le merci cinesi. E’ probabile che la Cina debba  “mascherarsi” ancora di più quale componente di un sistema, anziché in un prodotto.

Gli industriali converranno sul fatto che negli ultimi semestri, si sono visti in Europa, prodotti cinesi migliorati rispetto al passato. E’ vero senza modifica il quadro di conflittualità sociale, che espone la Cina a un’instabilità strutturale pericolosa.

In conclusione, la Cina è un elemento d’instabilità sul mercato perché afflitta da un formidabile problema sociale. Si chiama mancanza di democrazia.  

Ci sono esperienze positive di passaggio da una dittatura a una forma di governo democratica. Sud Africa ed ex Unione Sovietica. La Cina non ha mai permesso un confronto con personaggi del tipo “Mandela” e il Dalai Lama. Forse li ha fucilati sul nascere.

In assenza di un leader che funga da traghettatore da un regime obsoleto al nuovo la Cina resta pericolosa. Del resto non è possibile pensare alla stabilità neppure in Russia.

Un ultimo concetto. Si potrebbe obiettare che per fare affari non sia necessaria la democrazia.  E’ vero, nella misura in cui si pensi a rapporti commerciali del tipo “mordi e fuggi”.

Laddove invece si voglia operare nella certezza del diritto la trasparenze delle regole è una prerogativa della democrazia. Qui il pensiero corre alle nazionalizzazioni avvenute, dalla mattina alla sera, nei paesi arabi.

La sociologia, il diritto e le relazioni sociali, rientrano nell’analisi di fattibilità e convenienza dei mercati.

La Cina, ancora oggi non è in grado di garantire nulla. Il charimeno che ci sarà potrebbe nell’interim mettere in discussione tutti gli interessi delle nostre imprese sul territorio cinese. Con queste premesse d’instabilità, la Cina resta un punto interrogativo ad alto rischio.