Usa contro Cina. Fra 6 mesi il rilancio? E i fondamentali dove sono?

Usa contro Cina. In novembre si è celebrato un doppio rito politico nell’area del Pacifico: le elezioni negli Usa e la nomina della nuova dirigenza in Cina.

Le differenze tra le due procedure e quindi tra questi paesi sono abissali, ne dovrebbe conseguire un diverso atteggiamento commerciale da parte degli operatori economici che invece non c’è. La lamentela è semplice: la globalizzazione si è dimenticata gli aspetti sociali, politici e culturali, concentrandosi solo su quelli finanziari e economici in una fame di guadagno che rappresenta la base della crisi.

Nella foga del profitto rapido, si sono confusi i fondamentali tra quelli economici con gli assetti politici (dittatura o democrazia) sociali (povertà, sviluppo) e giuridici (riconoscimento degli stessi diritti alle imprese e persone che operano in stati diversi. Ad esempio le rogatorie in Cina non contano e i diritti privati delle persone non sono garantiti).

L’Occidente è ricco perché dal 1648 con le paci di Vestfalia ha inaugurato una stabilità nell’applicazione del diritto tale da permettere, un secolo dopo, la rivoluzione industriale e quindi il benessere materiale che conosciamo.

Purtroppo queste considerazioni, così semplici, sono sostanzialmente disconosciute da tutti, non ricordando che la Cina è una dittatura (tutti i governi di questo tipo hanno sempre i giorni contati).

Chiarito il contesto, studiamone i particolari. Negli Stati Uniti con 2,5 milioni di voti vantaggio sullo sfidante, l’attuale Presidente ha vinto altri 4 anni di sonnecchiante gestione (nella precedente elezioni il margine di vittoria fu di 12 milioni di voti).

Comunque negli Usa, 130 milioni di elettori hanno scelto il Presidente per 4 anni.

In Cina 1,3 miliardi di persone non hanno eletto chi per 10 anni guiderà il paese.

La differenza è impressionante, considerando anche l’orizzonte temporale in una epoca di rapidissimi cambiamenti: 4 anni per le democrazie, 10 per le dittature. In una si vota nell’altra no.

Queste considerazioni servono a stabilire un concetto noto: in Italia e in Occidente servono più posti di lavoro perché non sono scomparsi; semplicemente delocalizzati a favore di dittature o paesi generalmente immaturi socialmente e politicamente (la Russia, il Sud Africa, l’India e il Brasile).

A questo punto, anche se abbiamo ristabilito l’ovvio (che spesso non è per tutti) facendo un passo in avanti, scopriamo una grande realtà anch’essa nota a tutti, ma poco applicata. Esaminando, in questi giorni, delle lettere di richiamo elevate a dipendenti, che francamente non meritano la dignità che deriva dal posto di lavoro, contestualmente leggo quanto scrive il sindacato a difesa dei dipendenti.

Dal confronto il dubbio nasce immediatamente. Dove ci si impegna e si lotta per spingere gli imprenditori a produrre e lavorare in Italia, spesso ci si trova poi a scontrarsi con delle condizioni oggettive che non favoriscono il mantenimento di posti di lavoro in questo paese. Ecco perché sorrido amaramente quando sento che la ripresa ci sarà fra 6 mesi, perché mancano i fondamentali per rilanciare sia l’Italia che l’Europa nel suo complesso.

È vero che si è provato a riformare il mitico articolo 18 ma è una mentalità che va cambiata con il concorso dello stesso sindacato, che non può più difendere per il solo gusto ideologico il singolo rispetto alle necessità della Nazione.

Questo vale anche nella pubblica amministrazione e nella scuola di stato, ad esempio, dove è impossibile parlare di qualità dell’insegnamento con un corpo docente divorato da problematiche sindacali e politiche . Ciò colpisce la nostra gioventù diseducata nel processo formativo.

Infatti, in una scuola di Milano gli studenti e alcuni genitori erano pronti a pagarsi la gita scolastica con 900 euro a testa pur di recarsi a New York per 5 giorni. Non solo, ma il docente accompagnatore si sarebbe pagato il suo biglietto per non gravare sui ragazzi. La scuola ha bocciato l’iniziativa perché sindacalmente i professori non vogliono accettare gite, per un contenzioso con il Ministero. La motivazione ufficiale è: “c’è la crisi”, quindi i ragazzi non possono partire.

Con queste premesse la Nazione può sperare di superare la crisi? Ecco perché è superficiale dare una scadenza alle nostre difficoltà se non si affrontano le mentalità che le hanno scatenate!