The prisoner of parkinson

The prisoner of parkinson è la prima teoria sociologia al mondo per la cura delle malattie di lungo decorso.

Attualmente “la malattia” è giustamente un dominio della medicina. A volte interviene la psicologia. Mai la sociologia. Questo è un guaio. Lo è nella misura un cui la sofferenza modifica il comportamento delle persone. Come gestire un caro che soffrendo cambia il suo modo di relazionare?

La risposta richiede l’intervento della sociologia. Qui però non è tanto importante che ci sia una dottrina o l’altra! Il punto è vivere bene. Ecco la parte nodale di questa riflessione.

E’ possibile restare umani pur soffrendo? 

Ovviamente chi soffre è umano! Anzi è veramente umano. Il tentativo qui è di riuscire a conservare sentimenti e relazioni pur nella sofferenza. Troppi sono i casi “d’invidia” per chi resta sano e in vita rispetto il sofferente. Addirittura c’è stata una stizzosa reazione da parte dell’Associazione Parkison italiana contro questa teoria. Ormai è storia e acqua passata, ma resta come segnale importante. La lottizzazione della sofferenza è un qualcosa che si taglia con il coltello, almeno in Italia. Significa che si discute moltissimo delle competenze per gestire i malati, ma molto poco per alleviarne la sofferenza. Tradotto in termini pratici: la sofferenza è quasi un affare.

Oggi è stato firmato il contratto con un editore per la stampa del libro. The prisoner of parkinson si trasforma da appunti di studio a testo di riferimento. In realtà i diversi studi e singoli paragrafi sono già presso ben 200 università americane. La trasformazione in libro si pone nuovi orizzonti.

The prisoner of parkinson non è stata studiata per gli ambienti accademici. Al contrario risponde al bisogno di gestione della malattia. Usando una parola ricorrente nel libro ci si appella alla “militarizzazione” della risposta al male. Il paziente per reagire alla malattia, sia di breve sia di lunga durata, deve “armasi” del suo meglio. Quest’azione che poggia sul suo personale “carisma” si chiama “militarizzazione della risposta”. Alla malattia non si offre più tregua. Il malato non è più una cavia per la sofferenza ma una catapulta di reazione. Probabilmente è la ribellione alla malattia che non piace alle associazioni perchè non sanno gestire malati vivaci. Fino ad ora il paziente è un affranto. Non ci sono ancora molti malati “creativi e umanamente propositivi” in giro.

A New York e a Como, in Italia, ho visto una palestra di pugilato per malati di Parkinson. Ecco questo è lo spirito della teoria The prisoner of parkinson. Prendere a pugni la malattia. Si apre ora un nuovo approccio alla malattia.