Una persona che segue la Teoria del Prigioniero da Parkinson (The Parkinson’s Prisoner) recandosi a un congresso medico espone teorie innovative.

Cosa vuol dire Teoria del Prigioniero da Parkinson?

E’ semplice.

I concetti della Teoria del Prigioniero da Parkinson (The Parkinson’s Prisoner) sono:

1 – solitamente il malato vuole sentirsi vittima e desidera essere compatito con poca propensione a evadere dalla sua condizione;

2 – pazienti convinti d’essere malati “senza scampo” sono da considerare già a “fine vita”;

3 – se si riuscisse a organizzare una reazione, questa va sostenuta da una serie di partecipazioni quali il partner (figura cardine), amici reali e virtuali, associazioni e circuito delle palestre come il social network che in questo caso svolge un ruolo importante;

4 – nel caso di una reazione alla patologia, (quindi un’evoluzione dallo stadio di malato a prigioniero) in questo caso, l’apporto farmacologico diventa veramente importante. Al contrario, per i soli malati stiamo gestendo un’agonia. Qui si apre una grande contestazione alla medicina che al massimo considera la psicologia anziché la sociologia. Dove la differenza? Lo psicologo aiuta la persona senza toccarne le conseguenze sociali che competono alla sociologia. Molte volte è qui stato affermato che il dolore ha un effetto straordinario e devastante nelle relazioni familiari come sociali (è il tema della nascente Pain Sociology) Se questo è vero, il dolore non può più essere curato nella singola persona ma, colpendolo al contrario, nella sua manifestazione “sociale”, quindi nel rapporto con il coniuge, i figli, parenti e amici. Ecco che il sociologo entra in campo, nel momento in cui spostiamo l’ottica dal singolo personaggio in sofferenza alle sue relazioni “sociali”, inclusa quella intima con il partner. Il compagno di vita ha, nella Pain Sociology, un ruolo strategico nella cura del malato di Parkinson;

5 – l’organizzazione della risposta personale alla malattia di lungo corso (sostenuta da chi è vicino al prigioniero da Parkinson) si chiama militarizzazione;

6 – per avere un sostegno alla militarizzazione nella risposta al Parkinson, il prigioniero deve EDUCARE chi ha vicino a sé al fine d’insegnargli cosa e come svolgere la sua azione di supporto. Detto in altri termini, il prigioniero da Parkinson dove smettere di vergognarsi del suo tremore, sudore etc. Altro passaggio strutturale della Teoria sociologica al Parkinson;

7 – in realtà (questo è un ragionamento molto difficile da fare e ancor più accettare) le malattie riconducibili al sistema nervoso, oltre le ovvie cause “di natura”, sono formidabilmente indotte da un sistema di vita che ha fatto del nervosismo un atteggiamento di fondo nella vita quotidiana, portando a logoramento il sistema da cui, a livello di concausa, abbiamo il Parkinson e altre patologie annesse. Detto più semplicemente, stiamo discutendo su ceppo di malattie che segue la degradazione dei tempi moderni, dove si guarda ma non si capisce, si discute ma non parla, si litiga senza ragionare. Tutto sommato un tumore dell’epoca moderna e globalizzata (aspetto morale che ha la sua importanza). Se questo passaggio è condivisibile, gli strumenti per la cura non sono solo più riconducibili alla medicina, ma includono nuovi interlocutori che sono sia lo stile di vita personale che la sociologia. Questo concetto conclama il versate sociale della sofferenza e il bisogno di partire esattamente da questo lato (ancora sconosciuto) per aggredire il male;

8 – con una militarizzazione della risposta alla malattia, (impegno personale) in più con l’interdisciplinarità dei punti di riferimento (medicina + farmacologia + sociologia) il panorama di risposta alla malattia cambia completamente. Quando cambio di orizzonti muta il punto di reazione al male, si modifica anche la tollerabilità al disagio da parte del paziente che diventa così più vivace, vivo, intellettualmente motivato, reattivo, forte, presente e vivo. E’ questa una guarigione? No non lo è, però fa la differenza.

Questo vuol dire che stiamo parlano di cretinate come in Italia alcuni pensano?

No, la reazione al male da parte del malato non è una affatto una cretinata, ma il primo passo alla dignità, che normalmente viene calpestata dal dolore e solitudine. Praticamente stiamo parlando di fare la differenza tra un condannato che vuole dormire per il resto dei suoi giorni fino alla fine e chi invece distilla la vita, spremendola come un limone, per lasciare una traccia di se e la dignità d’aver vissuto. In pratica “prendendo a pugni il Parkinson” come a Como e negli Stati Uniti;

9 – la militarizzazione alla risposta al male, in ambito di Teoria del Prigioniero da Parkinson è valida anche per altre malattie? Credo di si! Significa un’estrema valorizzazione di se stessi in ogni carisma possibile e immaginabile. In questo Rinascimento un posto d’onore spetta alla dimensione fisica e sessuale solitamente abbandonata o trascurata o ancor peggio ridotta a un mero consumo di momenti (gradevoli) ma che durano sempre troppo poco. Sotto quest’aspetto c’è un’educazione alla fisicità e sessualità da ristabilire;

10 – militarizzare significa pensare di più,

vivere di più,

guardare di più,

ridere di più,

leggere di più,

amare di più,

fotografare di più,

viaggiare di più

e ancora di più, quindi di più e di più.

11 – si guarisce dal Parkinson? mentalmente si, fisicamente no, ma questo fa la differenza.

12 – che fine fa la medicina e la farmacologia? è molto importante, ma resta un ausilio stando attenti a non intossicarsi!

13 – chi è il vero interlocutore per questo Rinascimento del Prigioniero da Parkinson? Se stessi. Riportare al centro del tutto la persona, quel prigioniero che oggi è ridotto a essere solo un paziente, un malato, una cartella clinica.