The pain sociology – la sociologia del dolore studi e riflessioni del Prof. Giovanni Carlini

 

Studiando una teoria utile per i malati di Parkinson qui ritenuti a tutti gli effetti dei prigionieri, ovvero persone sane incapsulate in un corpo malato, nasce la sociologia del dolore come branca di ricerca e studio. Purtroppo la Pain Sociology non esiste in nessuna università del mondo, perché è stata pensata e impostata di sana pianta da questi appunti. La Pain Sociology crea comunque la base concettuale per capire meglio la teoria nota come The Prisoner of Parkinson.

 

Potrebbe sembrare un gioco ma non lo è

La teoria sociologica dedicata al Parkinson, The Prisoner of Parkinson (ormai così chiamata perché nota più negli Stati Uniti, in ambito accademico che in Italia, dov’è nata, ma ha subito un’ostilità preconcetta da parte delle diverse associazioni del Parkinson in particolare da Parkinson Italia a Milano) per potersi sviluppare non può più solo studiare il Parkinson, ma il dolore in senso lato generato da una malattia o da un evento traumatico.

Ne consegue che per sostenere un insieme di concetti è necessaria una disciplina. Essendo The Prisoner of Parkinson, unica al mondo, è stato necessario impostare una nuova forma di pensiero che ne allargasse l’ottica che ora chiamiamo Pain Sociology (sociologia del dolore).

 

Il dolore pur modificando il comportamento delle persone non è mai stato realmente studiato

Serve chiarire un concetto prima di tutto: la sociologia studia il comportamento sociale delle persone, detto in altri termini come interagiscono in famiglia, con i cari, amici e conoscenti. Al contrario l’analisi introspettiva è campo della psicologia e psicanalisi.

Come pensiero evoluto sugli effetti del dolore, abbiamo molti riferimenti in ambito di psicanalisi e di psicologia, ma su quello che accade nel rapporto di coppia, ad esempio, per effetto del dolore qui la sociologia, purtroppo non ha ancora saputo esprimere il meglio. Certamente in ambito di sociologia della famiglia e della devianza, ci sono degli spunti di ricerca, ma mai organizzati come un sistema di pensiero che possa essere utile prima di tutto alle persone, malati e prigionieri dentro il male. Infatti quanto qui si sta organizzando non è funzionale a una nuova cattedra universitaria, ma nel tentativo di poter offrire alle persone un bagaglio d’esperienze, idee, concetti, sensazioni, pensieri e prospettive che aiutino chi soffre. Come si può gestire la modifica del comportamento sotto l’effetto del dolore nei rapporti personali e sociali?

 

Esiste una soglia maschile al dolore che è diversa da quella femminile

Quando si studia il dolore, la prima cosa da rilevare è il genere di chi soffre perché tra uomini e donne, sulla sofferenza, si apre una divaricazione impressionante.

Fin qui nulla di realmente nuovo, ma da questa “informazione” si passa a chi dovrebbe gestire il dolore altrui, entrando in campo il partner, che solitamente non viene educato (per vergogna e una falsa interpretazione del pudore da parte del prigioniero-paziente) alle nuove necessità che emergono da una sofferenza prolungata nel tempo, unita alla paura dell’ignoto (la fine della vita). La trappola scatta sempre seguendo queste procedure di vergogna da un lato (il prigioniero), ignoranza nel gestire la nuova difficoltà (da parte del partner) e infine astio del paziente-prigioniero, verso il coniuge, per non aver capito e reagito (benchè non educato a questo). Chi avrebbe dovuto educare il coniuge? Benvenuti nella Pain Sociology.

 

Chi sta studiando la Pain sociology

Tra l’Italia e gli Stati Uniti c’è il prof. Giovanni Carlini, l’autore della teoria The Prisoner of Parkinson, negli Stati Uniti, presso la Emory University, facoltà di sociologia, il prof. Iris Chi, che ha già pubblicato in Honk Kong delle brevi ricerche sul tema e dalla Corea del Sud la Dottoressa in medicina, Giulia Cristina Pinolo Sacchi, italiana, reduce dalle percosse subite in Cina nel recuperare la sua ricerca sulla cura omeopatica al dolore.

 

Concludendo

L’ostilità preconcetta da parte dell’associazione nota come Parkinson Italia verso la nuova teoria sociologica The Prisoner of Parkinson, ha dimostrato come frettolosamente in Italia si voglia imbavagliare la ricerca che parte dal basso, dai pazienti, dai reali bisogni della comunità, per favorire qualcosa di più ufficiale, ingessato e formale.

In effetti gli errori vengono fatti da tutti e frequentemente, ma quanto è realmente colpevole è l’assenza di spirito autocritico che chiude gli occhi.

Lasciando l’Italia al buio della sua censura, negli Stati Uniti si sta formando un gruppo di lavoro intorno alla Pain Sociology da cui stanno per emergere studi empirici, ricerche e analisi, finalizzate ad elevare la qualità di vita delle persone che soffrono nel mondo. Che peccato che dall’Italia si debba emigrare quando si hanno idee uniche.