Richard Sennett, commento al libro “La cultura del nuovo capitalismo”

Richard Sennett è stato letto con l’intenzione di ricercare i responsabili di una globalizzazione mal applicata, che ha prodotto povertà e disoccupazione in Occidente. Il concetto stesso di globalizzazione, come anche per la moneta unica, denominata “euro”, se appaiono come delle belle idee, nella loro effettiva applicazione, si sono rivelati fallimentari. Il mondo a questo punto si complica, nel senso che abbiamo bisogno della globalizzazione, dell’uso indiscriminato del web, d’internet e della moneta unica, ma in una forma completamente rivista e corretta, per eliminare gli errori compiuti.

Ad esempio, la globalizzazione, sia negli Usa sia in Gran Bretagna, viene corretta con i processi di reshoring (rientro in patria delle aziende precedentemente delocalizzate), la moneta unica può essere migliorata con il doppio corso (una divisa nazionale per il mercato domestico e una per le transazioni all’estero o in area comunitaria) e internet/web vanno rettificati portando all’identificazione di chi li utilizza, affinchè il virtuale sia solo di sostegno al reale e non un mondo a se stante.

Piccola precisazione: a fine 2014 con i processi di reshoring negli Usa, sono stati nuovamente creati ben 700.000 nuovi posti di lavoro nel settore manifatturiero (salvando il secondo mandato all’attuale presidenza democratica). In Europa, e in Italia in particolare, non si sa neppure di che cosa si stia parlando!

Ecco che con queste premesse nasce un ragionamento critico verso la globalizzazione, delocalizzazione, internet/web e infine sulla moneta unica. Perché sono stati commessi questi errori? Richard Sennett è uno degli intellettuali “colpevoli” che ammette l’errore, quindi merita un grande rispetto e ascolto.

Richard-Sennett

 

 

 

 

 

 

 

Commento al libro “La cultura del nuovo capitalismo”

A carattere generale va subito detto che gli studi e le meditazioni del sociologo aziendale Richard Sennett non sono adatte per essere applicate alle PMI per 2 motivi:

  • non ha studiato le piccole realtà aziendali;
  • le PMI italiane sono principalmente di natura “padronale”, quindi poco adatte alla critica costruttiva interna, ricercando soprattutto giustificazione al loro operato e consenso anziché analisi e prospettive sulle quali misurarsi.

 

Pagina 7: Richard Sennett ricorda l’atto costitutivo della nuova sinistra in America, il Port Huron Statement (1962) che auspicava all’eliminazione delle istituzioni nella società moderna, considerate una cappa alla creatività e sviluppo della personalità. Richard Sennett scrive testualmente: “I contestatori dei miei tempi credevano che smantellando le istituzioni si potesse produrre delle comunità: relazioni faccia a faccia di fiducia e solidarietà, costantemente negoziate e rinnovate; un mondo orientato in senso comunitario, nel quale ognuno sarebbe diventato sensibile ai bisogni dell’altro”.

La frammentazione delle istituzioni, che comunque hanno assorbito il colpo da questa impostazione mentale, hanno prodotto a loro volto la frantumazione del mondo tradizionale. Ne consegue che oggi si lavora “in luoghi dove la gente assomiglia più a viaggiatori in una stazione ferroviaria” che a veri compagni di lavoro e le famiglie hanno subito l’esplosione delle loro relazioni. In pratica l’allentamento del concetto istitutivo statale, si è riversato sulle famiglie, portandole ad assomigliare a stazioni di transito in un’umanità affamata d’affetto, ma incapace di gestire gli strumenti a loro disposizione. Sennett afferma: “smantellare le istituzioni non ha prodotto più comunità”.

Qui però serve una precisazione concettuale. Nella tradizione sociologica, sia da parte di Karl Marx, che Georg Simmel e Max Weber, per comunità s’intende un ambiente ristretto, rurale, intimo, familiare, di paese anziché urbanizzato, dove le persone si conoscono tutte tra loro e, nel bene come nel male, si proteggono, aiutano e odiano. Diversa è invece la società, solitamente d’estrazione urbana, dove gli esseri umani non si conoscono e si difendono gli uni dagli altri, pur desiderando relazioni umane espressive. Sia la comunità, che soprattutto la società, hanno bisogno d’istituzioni per vivere. Il pensare miticamente alla comunità, vuol dire un tornare al piccolo gruppo familiare allargato o di ridotto centro paesano/urbano.

 

Pagina 8 e 9: Richard Sennett fa qui un’osservazione acuta: grazie alla liberazione dalle istituzioni (quelle oppressive degli anni Sessanta o dai vincoli valutari sui mercati internazionali) si è creata, negli ultimi 50 anni, una massa di ricchezza senza precedenti nella storia dell’umanità. Criticare la globalizzazione, senza considerare quest’ondata di ricchezza che ha anche scomposto la personalità umana, conducendola allo smarrimento esistenziale, non è né corretto nè completo come ragionamento.

Richard Sennett prosegue proponendo di sostituire al concetto tradizionale di comunità quello di cultura, in senso antropologico, come collante della società, infatti afferma: “la comunità non è l’unico modo di mantenere coesa una cultura. E’ evidente che anche gli abitanti di una città vivono in una cultura comune, benchè non si conoscano tra loro”. Proposto il superamento del concetto di comunità con la cultura, Sennett fa l’identikit di chi è in grado di vivere bene in epoca globalizzata:

  1. chi sa sganciarsi dal lungo tempo e vive nel breve, vagando senza radici da un’attività all’altra. Sennett scrive: “se le istituzioni non costruiscono più un quadro stabile a lungo termine, il singolo deve improvvisare la propria biografia”;
  2. il nuovo ordine sociale emergente combatte contro l’ideale del lavoro dell’artigiano che impara a fare benissimo una cosa soltanto”. Sennett ha ragione quando scrive così, ma percorrendo questo sentiero stiamo identificando un mondo sbagliato di pressapochismo e scarsa professionalità, aperto a carriere brevi, dove si pongono in posizione di vertice (manager) trentenni anziché cinquantenni! Grazie a questo stravolgimento le navi affondano o si scontrano con gli scogli, l’economia non decolla e la superficialità del “made in China” può espandersi nel mondo;
  3. la terza attitudine è conseguenza delle prime due: sganciarsi dal passato. Sennett scrive: “i servizi resi in passato non assicurano ad alcun dipendente un posto garantito”. Parafrasando, i guai diventano grandi, quando questo concetto è trasferito dentro la vita di coppia e nelle famiglie.

 

Pagina 10: Richard Sennett svolge in questa pagine due ragionamenti diversi. Nel primo dichiara d’essere stato di sinistra e contro le istituzioni, fino a quando non ha iniziato a intervistare le persone per scopi professionali, scoprendo un vasto strado della popolazione che non si sentiva affatto oppresso dalle istituzioni, anzi, volevano proseguire a far riferimento a strutture sociali solide, come il sindacato, l’azienda e i mercati.

Qui la sensibilità teorica di Sennett inizia a vacillare.

Il secondo ragionamento spiega come le imprese, in seguito al fallimento degli accordi di Bretton Wood, dopo la crisi petrolifera del 1973, che ha prodotto un’attenuazione delle restrizioni nazionali agli investimenti, abbiano iniziato a ricercare investitori interessati a risultati di breve periodo rispetto al passato. E’ una rivoluzione. Passando dal lungo al breve periodo, come orizzonte di riferimento, le aziende introducono un nuovo modo di valorizzare il fattore tempo che si proietterà successivamente sulla società, le famiglie e i criteri di ricerca del personale, favorendo il provvisorio alla stabilità e professionalità. A questo punto serve un riepilogo capace di rispiegare quando già illustrato, favorendo un successivo passaggio:

  • negli anni Sessanta, la sinistra intellettuale ha cercato d’abbattere le istituzioni (stato e aziende) per ricercare “la comunità” nella società moderna. Nonostante ciò, le istituzioni servono per compattare la comunità/società;
  • Sennett propone di superare il concetto di comunità a favore di quello culturale;
  • nel 1973 cambia tutto ed emerge un nuovo soggetto che per vivere ha 3 qualità: rinuncia a una biografia costante nel tempo, vive nel breve termine e ha abilità in costante adattamento;
  • si giunge alla crisi degli anni Novanta, che lascia tracce nella mentalità delle persone, le quali si pongono la domanda: il successo e la ricchezza, emerge dal breve o dal lungo tempo?
  • qui Sennett ammette l’errore: “avevo trascurato il ruolo del consumo nell’economia”;
  • questione artigiano: non è più gradito chi sa fare 1 cosa e bene!

 

Pagina 11: Giunti negli anni Novanta, Richard Sennett prosegue le sue interviste passando dagli operai ai colletti bianchi. Ormai a quell’epoca era diventato più conveniente investire in tecnologia che pagare le persone per lavorare. Il riferimento è diretto all’informatica.

Il boom della finanza e dei media (affrontato in un altro libro di Sennett – L’uomo flessibile) ha spinto verso un nuovo concetto di capitalismo, facendo credere alle persone che per diventare ricchi bastasse agire nel breve tempo. Qui inizia la tragedia del tempo moderno.

Al termine degli anni Novanta, il boom iniziò a declinare, ma ormai il danno era stato compiuto, lasciando importanti tracce nella sensibilità delle persone, ormai attaccata alla velocità nella rapidità degli eventi della vita, che trovano nella deregolamentazione un passaggio importante per destabilizzare le istituzioni, ormai collegate al solo mercato (realtà liquida cui non fare affidamento, sul lungo periodo, perché soggetta alle mode).

Emerge in questa pagina l’autocritica di Richard Sennett: “nel presente libro ho cercato di non limitarmi a raccogliere ciò che avevo scritto nei libri precedenti, dove avevo trascurato il ruolo del consumo nell’economia”.

 

Pagina 12: Richard Sennett critica la presunzione degli studiosi statunitensi che spesso credono che dire americano significhi “moderno”. Questo poteva essere vero negli anni Settanta, ma non lo è più dai Novanta a oggi. Infatti Richard Sennett scrive: “il declino dell’impiego che dura per tutta la vita non è un fenomeno peculiare della realtà americana”. Da questa constatazione nasce un fenomeno nuovo, tipico dell’Occidente: il ceto medio tende ad accettare con rassegnazione i cambiamenti strutturali.

 

Pagina 13: qui Richard Sennett spiega un aspetto importante dei suoi studi che lo rende non adatto alle PMI italiane. “La new economy (prevalente oggetto di studio di Sennett e qui scritto di suo pugno) è soltanto una piccola parte dell’intera economia”.

Indubbiamente gli effetti sull’intera economia mondiale del ristretto club della new economy sono enormi, ma restano pur sempre una proposta soggettiva, come tutto, a critica. Ecco dove la troppo giovane età degli attuali manager, pecca clamorosamente: non sanno distinguere le mode dalla modernità. Da queste parole nasce una riflessione importante: forse l’estrema e ridotta porzione di mondo economico, esaminato negli studi di Sennett e altri, è stata imposta al resto del pianeta, come se fosse inequivocabilmente il futuro! Attenzione che è possibile un errore strutturale dove stiamo imponendo al tutto una visione ridotta della realtà.

 

Pagina 17: è Karl Mark che, criticando il capitalismo rimpiange, pur non avendolo mai vissuto, il mondo rurale e comunitario, trovando solo instabilità nel divenire moderno e capitalistico. Rincara la dose il sociologo Joseph Schumpeter quando parla di “distruzione creatrice”. Da qui nasce la polemica sull’instabilità rispetto un mondo stabile (quello contadino).

Pagina 18: solo nel Nord Europa si è riusciti a conciliare stabilità capitalistica e crescita salvaguardando una equa distribuzione della ricchezza.

 

Pagina 19: chi conia il termine “capitalismo” è il sociologo Werner Sombart. Marx sbagliò nel credere che il capitalismo fosse permanentemente destabilizzante, perché trovò la sua stabilità nel XIX secolo.

 

Pagina 20: fino al 1860 la gestione aziendale era un totale caos, generando povertà e disoccupazione nella società civile. A Londra, nel 1850 i disoccupati erano il 40% della forza lavoro e i fallimenti colpivano il 70% delle imprese. Se le aziende avessero proseguito in questo modo, avrebbe avuto ragione Marx nel prevedere un tracollo del capitalismo.

Fortunatamente qualcosa cambiò, verso la fine del XIX secolo, non per effetto diretto del mercato, bensì per una sorta di militarizzazione della società civile, studiata e ampiamente descritta da un altro sociologo: Max Weber.

 

Pagina 21: la ricerca dell’ordine, anche nel capitalismo oltre che nelle Forze Armate, porta all’adozione di un nuovo lessico aziendale con l’analisi dei risultati, il pensiero strategico e la campagna d’investimenti. In tutto questo c’era la viva preoccupazione delle cancellerie (non ultimo Bismark) nel contenere i rischi di una rivoluzione sociale, spinta sia dai socialisti sia dai cattolici. Come si esprime direttamente Richard Sennett: “Questa ricerca dell’ordine sociale, come la definì lo storico statunitense Robert Wiebe, si estese dal mondo degli affari allo Stato e, infine alla società civile” assumendo la forma e sembianze di burocrazia. Quest’ultima è stata uno degli argomenti di studio più intensi nella carriera di Max Weber.

 

Pagina 22: Richard Sennett scrive: “Al centro di questo capitalismo militare-sociale stava il tempo: un tempo a lungo termine, incrementale e, soprattutto prevedibile. Questa impostazione burocratica ebbe sugli individui effetti altrettanto notevoli che sulle regolazioni istituzionali. Il tempo razionalizzato consentì alle persone di pensare alla loro vita come a un racconto – un racconto non tanto di ciò che accadrà necessariamente, ma di come le cose dovrebbero accadere, secondo un ordine dell’esperienza. (..) Per la prima volta molto lavoratori manuali poterono progettare l’acquisto di una casa. (..) L’idea di poter progettare. (..) La parola tedesca Bildung designa un processo di formazione personale che mette un giovane in grado di adottare una condotta di vita continua”.

 

Pagina 23: il sistema Bildung avviato nel XIX secolo raggiunge il suo apice negli anni Sessanta del XX secolo. Oggi però tutto questo è scomparso con un epitaffio a firma di Gorge Soros: “nei rapporti tra persone la transazioni hanno sostituito le relazioni”

 

Pagina 25: Max Weber capì come la militarizzazione del capitalismo avrebbe modificato le previsioni di Marx, soprattutto quando questo nuovo modo di gestire l’impresa si fuse con il modello di Adam Smith, che prevedeva i manager nella catena di comando aziendale.

Il manager era colui che è capace di gestire un’attività complessa, scomponendola in parti, garantendone l’armonia funzionale e produttiva.

 

Pagina 26: intrecciando il sistema militar-burocratico con quello di Adam Smith, iniziano le prime differenziazioni. Laddove nel modello weberiano si è puniti se non si dovessero rispettare rigidamente gli ordini, in quello di Smith si è bravi nel lavoro specializzandosi nella mansione e si ottiene il successo facendo di più rispetto a quanto richiesto.

 

Pagina 27: Richard Sennett scrive: “L’obiettivo sociale e politico della burocrazia ingessata (militarizzazione) è più l’integrazione sociale che non l’efficienza”. Si parla quindi, seguendo il ragionamento di Weber, di una burocrazia assimilabile a una “gabbia d’acciaio”, che si propone d’insegnare la disciplina per una ricompensa futura alla fedeltà e costanza quotidiana nell’oggi. Esattamente a questo punto si apre, nel pensiero di Weber, una netta divaricazione tra modello militare e quello civile. Il primo punta a una gratificazione immediata, mentre quello civile a un futuro, che spesso non giunge mai a termine, se non nella pensione, a fine ciclo vitale di lavoro. Però qui emerge una delle geniali intuizioni di Weber. Nel mondo civile, procrastinare il momento della soddisfazione diventa un metodo di vita più che un’attesa, giustificando un’ascesi intramontana (vedi il libro L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber). Ecco che la trasformazione del capitalismo da caotico a militare, quindi evoluto secondo lo schema di Smith e infine burocratizzato, cambia la società.

 

Pagina 29: nasce un problema: l’esecuzione degli ordini richiede un processo d’interpretazione.

 

Pagina 30: Richard Sennett scrive: “Una persona, anche se generalmente insoddisfatta, che ottiene la possibilità di dare un senso alle cose che svolge, finisce con il legarsi all’organizzazione. (…) questa combinazione di disaffezione e impegno è ancora più marcata tra gli impiegati pubblici delle burocrazie piramidali dello Stato sociale”.

Il più bel regalo che il capitalismo sociale ha dato alla società civile è stato l’uso del tempo organizzato. Com’è stato scritto: le gabbie d’acciaio creano una cornice per il tempo di vita trascorso con altre persone.

 

Pagine da 31 a 35: Liberati dalla gabbia si perviene alla fine del capitalismo sociale. Verso la fine del XX secolo sono accaduti 3 fatti:

  • nelle aziende c’è stato uno spostamento di potere dai manager agli azionisti;
  • questi ultimi sono meglio definiti soggetti al “capitale impaziente” (leverage buyout) in quanto ricercano il breve tempo. Gli investimenti che nel 1965 erano solitamente sviluppati sui 46 mesi, nel 2000 si sono ridotti a 3,8 mesi, oggi ancor meno;
  • l’avvento della comunicazione. Qui però c’è un fatto nuovo. L’era della comunicazione azzera il processo d’interpretazione rendendo chiaro l’ordine impartito. Questa non è una novità da poco, perché togliendo ai dipendenti la possibilità d’interpretare, viene anche meno il loro grado d’identificazione nella struttura.

Richard Sennett scrive: “Nelle dirigenze delle imprese sottoposte alla pressione del capitale impaziente, il risultato immediato (..) è stata la convinzione di saperne abbastanza potendo ordinare cambiamenti direttamente dall’alto. Questa convinzione porta spesso alla rovina dell’azienda.”

 

Pagina 40: Richard Sennett scrive: “Una delle attrattive per gli investitori è stata la frenesia del movimento e del mutamento e il caos nelle aziende: quanto più turbolento, tanto più seducente. Solo pochi investitori sapevano cosa acquistavano, se non che fosse nuovo. (..) Intervistando i lavoratori occasionali ho potuto osservare che chi ha successo (..) ha un’altra tolleranza per l’ambiguità”. Da affermazioni di questo tipo e così gravi si capisce il nesso con altri libri e autori, relativamente alla Sessualità in epoca globalizzata di John Carlins e dello stesso studioso L’impresa padronale.

 

Pagine da 41 a 43: il nuovo modello di lavoro è per un pensiero flessibile trovando soluzioni in brevissimo tempo, ma ciò comporta modifiche nella squadra di lavoro e questo introduce un livello altissimo di stress. Il mercato oggi è definito winner-takes-all: chi vince si prende tutto.

Tutto ciò rende molto crudele il mondo. Infatti Sennett scrive: “La disuguaglianza e diventata il tallone d’Achille dell’economia moderna.”

 

Pagine da 49 a 57: Richard Sennett scrive: “I 3 deficit del cambiamento sono la ridotta lealtà nei confronti delle istituzioni, l’indebolimento della fiducia tra dipendenti e una riduzione delle conoscenze delle istituzioni.” Prima che tutto questo avvenisse, le imprese ben dirette offrivano al dipendente l’orgoglio di farne parte e quelle dirette male, comunque un orientamento. Oggi con i lavori precari, specie offerti ai giovani, sicuramente si offre “un qualcosa da fare”, ma si trasmette anche l’impazienza che, tradotta in valori culturali conduce allo svilimento della stabilità lavorativa. Questo correre, per inseguire quanto non si sa, nel momento in cui viene introitato nella vita privata ed affettiva, conduce all’esplosione della coppia.

 

Pagina 58: Richard Sennett scrive: “La macchina del tempo, che costituisce il motore dell’etica protestante, è il differimento della gratificazione immediata a favore di obiettivi di lungo termine. Weber considerava questa macchina del tempo il segreto della gabbia d’acciaio, nella quale gli uomini si misurano all’interno d’istituzioni rigide poiché sperano in una ricompensa futura. Il differimento della gratificazione rende possibile l’autodisciplina. Ci si trascina al lavoro anche a costo dell’infelicità perché il proprio sguardo è rivolto a questa ricompensa futura. Per essere credibile, questa versione fortemente personalizzata del prestigio legato al lavoro richiede un certo tipo d’istituzione. Essa deve essere abbastanza stabile da poter anche garantire ricompense future. E i manager devono rimanere al loro posto in qualità di testimoni delle prestazioni dei dipendenti.” Questo era il capitalismo sociale.

 

Pagina 65: Lo spettro dell’inutilità è l’incubo del capitalismo globalizzato. Prima esisteva il capitalismo sociale con le sue certezze e soprattutto la fede nel BILDUNG, ora la vita è liquida, con una precisa sensazione d’inutilità. Il guaio è che gli attuali disoccupati sono persone formate, ma che non trovano ugualmente lavoro! Il contesto è cambiato.

 

Pagina 66: I primi studiosi del concetto d’inutilità sociale furono David Ricardo e Thomas Malthus. Richard Sennett scrive: “lo spettro dell’inutilità si è profilato per la prima volta nella sua forma moderna con lo sviluppo delle città, dove gli emigranti non avevano più una terra da coltivare”. Ricardo focalizzò l’innovazione tecnologica, come richiesta di posti di lavoro in meno, aumentando la produttività. Malthus si specializzò in ambito demografico.

Richard Sennett scrive: “una delle autentiche conquiste della società moderna è l’aver rimosso il contrasto tra massa e intelletto”. Questo vuol dire che l’insegnamento (bildung) è stato quella novità che ha permesso di superare il concetto d’inutilità. Certo, poi ci sono state affermazioni come quelle di John Ruskin che ritenne il lavoro in fabbrica deleterio per l’intelligenza.

 

Pagina da 67 a 76 : Lo spettro dell’inutilità è alimentato da 3 fattori:

  • l’offerta mondiale di forza lavoro;
  • l’automazione;
  • il prolungamento delle aspettative di vita.

Sul primo punto c’è da riconoscere che le forze lavoro dei paesi emergenti sono molto, ma molto più preparate scolasticamente, rispetto i ragazzi occidentali. Oltre a una maggiore formazione scolastica (paragonabile agli anni Cinquanta-Sessanta in Occidente) hanno anche un importante costo del lavoro inferiore.

A questo punto s’intrecciano gli argomenti tra loro. In Occidente l’alta formazione costa molto di più rispetto al resto del mondo, ma c’è anche da considerare come la stessa professionalità diventi particolarmente obsoleta. Significa che un medico, ad esempio, per mantenersi aggiornato, deve per forza rinnovare l’intero bagaglio professionale almeno 3 volte nella sua vita lavorativa. Questo vale anche per avvocati, ingegneri, professionisti, insegnanti.

Quando un personaggio formato, perde il posto di lavoro ed è un 50enne, si pone il dilemma: conviene aggiornarlo ai nuovi standard di formazione e pagarlo anche per quanto richiede la sua anzianità, oppure assumere un giovane già adeguato a paga bassa? Va anche considerato come il 50enne abbia una forte capacità di critica verso l’azienda e l’imprenditore, in un mondo dove gli attuali capi d’azienda non amano essere criticati (vedi in questo il libro di John Carlins L’impresa padronale).

Studi dettagliati sulla lealtà delle maestranze all’azienda sono stati compiuti da Albert Hirschman. Secondo lo studioso, oggi in Occidente, s’investe sulle persone solo in quelle aziende dove la lealtà è considerata un capitale dell’impresa, che non sono certamente quelle più avanzate tecnologicamente dove si reagisce con irritata impazienza sia dal lato della proprietà che delle maestranze.

Relativamente al concetto stesso d’automazione fu commesso un errore dagli studiosi Daniel Bell e Alain Touraine, pensando che le macchine non avrebbero tolto lavoro agli umani. In effetti i loro ragionamenti da sociologi erano calibrati su macchine che si limitavano “a fare”, non a “pensare”. L’informatica ha introdotto un vero processo sostitutivo del lavoro umano. Richard Sennett scrive: “dal 1998 al 2002 la produzione d’acciaio negli Stati Uniti è cresciuta da 75 milioni di tonnellate a 102, anche se il numero di lavoratori è sceso da 289.000 a 74.000”.

Interessante la critica di Richard Sennett ai consulenti aziendali, che per natura sarebbero coloro che spingono (sbagliando) le imprese a perdere quote nell’importanza del capitale umano anziché ricercare la fedeltà e la costanza nel lavoro.

 

Pagina 77 e 78: nella fretta che la modernità induce, si riduce la legittimazione dei bisognosi e cresce l’emarginazione verso chi ha fallito (i disoccupati ad esempio). Richard Sennett calcola che un quinto (il 20%) degli uomini tra i 50 e i 60 anni negli Usa è sottoccupato, senza però calcolare l’ammontare di questo danno economico alla società in fatturato in meno e tasse non pagate!

 

Pagina 79 e 80: il concetto stesso di artigianato (di chi svolge una sola mansione e bene) è venuto meno perché l’artigiano realizzando un bene l’oggettivizza, ovvero consegna un valore intrinseco al prodotto. Dare un senso e un valore a un bene, significa ritardarne la sostituzione e questo non concilia con la società dei consumi, dove spesso si cestina quando ancora funzionante. In base a questa mentalità chi s’impegna e impunta nella risoluzione di un problema, oggi si dice che “s’incaglia”. Richard Sennett scrive: “chi si radica in un’attività per riuscire a svolgerla meglio può sembrare ad altri incagliato, nel senso di fissato su quella sola cosa”

 

Pagine 82-86: si affronta il concetto del talento. Richard Sennett scrive: L’idea di una carriera aperta al talento fece i suoi primi passi nell’ambito dell’organizzazione militare (…) utilizzando i test di ammissione nelle accademie. (..) ovviamente una procedura di questo tipo oggettivava il fallimento indipendentemente dall’origine familiare.

Il sociologo americano Otis Dudley Duncan ha studiato in particolare il concetto di merito, scoprendo che le carriere più ambite nel mondo non sono quelle meglio pagate, ma che permettono autonomia e autodeterminazione. Emerge ora una contraddizione. Il capitalismo sociale (modello Bismarck) pur selezionando, tende a includere tutti i cittadini nello stato, nel senso che renderà anche oggettivo l’incapacità, ma in ogni modo ricerca una collocazione utile nella società. Pierre Bourdieu ha chiamato quest’ambivalenza “distinzione”. Significa lasciare la massa nell’ignoranza, accendendo i riflettori sull’elitè mostrata a titolo d’esempio.

 

Pagine 102-130: il concetto di consumo. Com’è possibile che un prodotto abbia solo il 10% di differenza da un altro e possa essere venduto a un prezzo superiore del 100%? E’ tutta colpa della marca. Prodotti simili vengono venduti a prezzi intensamente diversi grazie allo stratagemma della marca.

Sono molto interessanti gli studi qui presentati della Sharon Zukin, in ambito di mercato automobilistico confrontando la Skoda con l’Audi.

Secondo la famosa sociologa (il consumo è un’arma sociale) l’intelligenza sarebbe l’acquisto di una Skoda, considerato che ha l’identica struttura dell’Audi, ma così non accade, perché? Interessante l’esempio che offre Richard Sennett sulla differente tariffa area tra classe economica e business class. La differenza di tariffa è pari a 4 o 5 volte e il viaggiatore non è che voli a una velocità maggiore della classe economica o che abbia uno spazio decisamente maggiore rispetto gli altri! Come fanno ad accadere queste cose che già nella storia hanno avuto le loro manifestazioni all’epoca della mania per i tulipani, nell’Olanda del XVII secolo?

Richard Sennett, citando la Zukin scrive: “nella pubblicità inglese, la Skoda è presentata come una cosa a se stante. L’auto viene mostrata da dentro e da fuori e spesso la presentazione è integrata da dettagliati testi informativi. Invece, la costosa Audi perlopiù offre una visuale dalla prospettiva del guidatore, con lo sguardo rivolto all’esterno. La pubblicità contiene poco testo e la visuale cambia da messaggio a messaggio, a secondo che si tratti di un coupè o di una berlina del modello di punta, a sua agio sia nel Sahara sia nella sala d’esposizione. La differenza visiva mira a impedire, nella mente del compratore, qualsiasi associazione tra la Skoda e l’Audi.”

Da questo passaggio il ragionamento evolve verso una forma di pubblicità e presentazione del prodotto che lasci immaginare al consumatore quello che vuole, purchè acquisti il bene. Si tratta di un livello diverso dal precedente, che ora nasce dalla procedura detta di “doratura” come in uso nell’industria automobilistica. In pratica si potrebbe dire che “sembrano tutti scemi”. Richard Sennett scrive: “il consumatore cerca lo stimolo della differenza in merci sempre più simili” (..) per qualche settimana potei vedere il creative team dell’agenzia che si spaccava la testa su come si potesse vendere una nuova marca di questa anonima bevanda alcolica. La soluzione che alla fine escogitarono consistette in fotografie di uomini e donne in pose sexy uniti all’altezza del bacino dal nome del prodotto, senza alcuna indicazione di quale tipo di prodotto si trattasse. Tutto il lavoro d’associazione era lasciato al consumatore. La genialità di questa campagna pubblicitaria sta evidentemente nel fatto che mese dopo mese apparvero altre foto di diversi modelli dall’ombelico scoperto, in modo da produrre nell’osservatore un “effetto d’associazione composto”, come mi spiegò uno degli inventori (faccio notare che ben pochi membri del team bevevano superalcolici)”. (..) si arriva così alla passione che consuma se stessa.

Un’ulteriore osservazione svolta sul consumo è riferita alla sensazione di potenza che riceve il consumatore quando la sua gamma di scelta viene appositamente allargata. Si parla della GDO e in particolare del marchio Wal-Mart, che appositamente vuole colpire l’immaginario del visitatore con le sue enormi dimensioni in alta offerta di scelta.

Si conferma così il pensiero della Zukin in merito alla teatralità del consumo.

 

Pagina 134: in finale di libro, Richard Sennet scrive e riconosce: “I settori più progrediti si basano su relazioni umane superficiali”. In questa frase è racchiuso tutto il senso del successivo libro di John Carlins, “L’impresa padronale”.