La guerra dei cambi e quella della fame

Rapporto Semilavorati

Aggiornamento al 20 ottobre 2010 di Giovanni Carlini

Fonti:
– Quotazioni Ufficiali London Metal Exchange – indici LME, COMEX e NYMEX.,
– Quotidiano: Il Sole 24Ore e suo sito “Metalli 24 materie prime”
– Associazioni: Assofermet e Camera di Commercio di Milano

CONSIDERAZIONI A CARATTERE GENERALE CON PROIEZIONI FUTURE
E’ guerra! Come sempre a ogni crisi segue la guerra. La differenza questa volta è che il conflitto non è “laggiù” in Medio Oriente o in Asia, dove potremmo dire che “se la sono cercata” tra dittatori da strapazzo e fondamentalismo sterile, ma la guerra è qui. Con il caro euro il nostro lavoro non è vendibile all’estero restando confinato nell’ambito nazionale e quello UE ovvero in contesti dove la domanda è in piena discesa. (il calo dei consumi è nell’ordine del 3%) Neppure valgono quei sofismi-equilibrismi tra chi “ci guadagna e chi perde” nel caro euro. perché la benzina la usiamo tutti. Il quadro è semplice: dobbiamo proseguire a comprare materie prime, ma siamo in crisi nel vendere. In un contesto di questo tipo, l’equazione non quadra. La consolazione d’aver venduto da record nel nostro export in agosto, non cambia il quadro, perché il cambio con dollaro allora era di 1,25 contro 1 euro. Oggi a fine ottobre è 1,40 contro 1 euro, il che significa un mondo diverso, completamente opposto al primo.
Non solo, ma l’impennata clamorosa del frumento a cui segue tutto il resto nel campo alimentare, ha il potenziale di scatenare quelle rivolte del riso, del pane e del cibo che hanno già seminato morte nei paesi più deboli (quegli stessi che si affacciano sul Mediterraneo e che comunque si trovano a poche ore di volo da noi) Cosa attendersi nel futuro da un quadro di questo tipo?

La forza della Cina è ora la sua debolezza

La divisa americana non scende rispetto alle principali valute mondiali perché rispecchia il quadro macroeconomico del paese, ma in esito a una precisa e voluta politica della Banca Federale. L’obiettivo è semplice. Se le merci statunitensi sono più a buon mercato, saranno comprate dai cinesi, dai brasiliani (ma questo è un effetto secondario e di scarsa importanza) e dal resto del mondo. Una dinamica di questo tipo però produce un esodo di capitali dalle piazze finanziare americane a quelle dei paesi in fase d’affermazione, elevandone il valore della moneta. Con un real brasiliano più caro, le merci di questo paese entreranno con maggiori difficoltà sul mercato americano, perché saranno più care e quindi meno comprate. Questo è l’effetto principale: tagliare le importazioni e indirizzare la domanda interna sui prodotti nazionali.
La forza dei paesi emergenti, che ora si rivela il loro tallone d’Achille era quella d’esportare merci a buon prezzo nel mondo, però se il loro costo aumenta, tutto il meccanismo s’inceppa ritorcendosi contro di loro. La Cina, il Brasile, il Vietnam e molti altri hanno costruito il loro successo sulla disoccupazione dei paesi occidentali, non preoccupandosi del loro mercato interno che è ancora ai minimi termini (terzo mondo). Una morale da tutto questo è: chi la fa se l’aspetti.

Il collasso della Cina

Per anni è stato scritto e spiegato quanto il mercato cinese sia a rischio di collasso sociale. Nessuno ci ha voluto credere. Oggi molti (troppi) si sono calati nel mercato cinese e sono destinati a subirne tutte le conseguenze. Non dicano però che non è stato scritto e detto molte volte quanto pericoloso fosse quel mercato! Benedetta superficialità. La Cina non ha sviluppato un mercato interno, quindi è strutturalmente debole, mancando uno dei due presupposti per operare in forma capitalistica.
Il capitalismo per funzionare richiede delle condizioni minime che sono: la democrazia (la Cina è una dittatura) e mercato interno (praticamente inesistente o minimo). Quando gli stessi dirigenti cinesi ammettono in pubblico che se non crescessero dell’8% all’anno, il loro regime rischierebbe d’essere sopraffatto da rivolte popolari, con la recente manovra sui cambi e il conseguente voluto deprezzamento del dollaro, sono stati tagliati fuori dal mercato americano. La manovra riguarda miliardi d’importazioni cinesi negli USA in grado ora di ridimensionare l’eccesiva baldanza del paese asiatico. Solo in questi giorni la Cina sta sperimentando i suoi effettivi limiti. In un simile contesto, nel più grande paese asiatico, con un mercato interno non maturo e le esportazioni fortemente ridotte penalizzate dal cambio, quelle imprese italiane che si sono “lanciate” in Asia come se fosse la promessa del futuro, restano stritolate. Un effetto di questo tipo può essere mitigato solo se dovessero operare a favore del nostro mercato, lucrando sui differenziali di costo della mano d’opera. Anche con queste prospettive permangono gravi problemi di costi nei trasporti e di marchio di fabbricazione. Si conclama così la fine di un’era che troppo frettolosamente è iniziata e che ora è tutta da ridisegnare. La Cina non scomparirà, forse la sua dittatura ha i giorni contati, ma la Cina resterà un paese emergente che deve imparare a costruire le basi per crescere senza “copiare” non capendo.

COMMENTO ALL’ANDAMENTO DEI PRINCIPALI METALLI

ALLUMINIO
In tutto il mondo dei metalli non ferrosi, del ferro come dell’acciaio, è in atto una lenta ma decisa rivoluzione: la trasformazione del prezzo d’acquisto della materia prima da annuale a trimestrale. Sembra una modifica di poco conto, ma cambia qualcosa che è durato per 20 anni. In questo modo anche l’allumina ha accettato la rivoluzione nel calcolo dei prezzi di vendita del minerale, derivato dalla bauxite e indispensabile per la produzione di alluminio primario.
Chi ha rotto il ghiaccio sull’allumina è la Alcoa, che denuncia un calo di utili del 26,2% rispetto all’anno prima, sopportando un maggiore aggravio di costi. L’annuncio dell’Alcoa è destinato a gettare le basi per una totale trasformazione nella struttura dei costi di produzione dell’alluminio. In pratica il nuovo prezzo si basa sulla media mensile di un paniere di prezzi d’allumina pubblicato da diverse fonti, senza concedere a queste alcuna preferenza. Il nuovo meccanismo consente di riflettere meglio i costi che gravano sui produttori di questa materia prima compresi i noli marittimi e quelli energetici. L’indicizzazione offre anche maggiore flessibilità ai prezzi che attualmente restano bloccati per un anno intero. Ovviamente il cambiamento sarà graduale, in quanto la maggior parte dei contratti in essere oggi è a carattere pluriennale. Infatti la stessa Alcoa pensa d’adeguare su base annuale solo il 20% dei contratti di fornitura in essere, consentendo a tutto il sistema un adeguato tempo per imparare a gestire la novità.

RAME
L’offerta di rame(come anche per altri metalli) è vulnerabile. Questa è la risposta dei produttori per mantenere alto il prezzo. L’International Copper Study Group (Icsg) prevede per il 2011 un deficit d’offerta di 435mila tonnellate per soddisfare le richieste di rame raffinato, portando il mercato in deficit per la prima volta dal 2007.
Queste previsioni però non tengono conto degli effetti emersi ai primi di ottobre, che risentono di un generale calo produttivo, dovuto alla rarefazione della domanda nei mercati interni dei singoli paesi. Ne consegue che tutto va rivisto effettivamente a fine anno. Comunque, al netto delle tendenze in atto da ottobre, si ritiene che la produzione cresca nel 2010 del 1,1% (attestandosi a 19,3 milioni di tonnellate) e il consumo del 4,5% (il che tradotto in tonnellate significa 19,7 milioni). L’eccedenza del 2010 è stimata in 200mila tonnellate.
Ciò che prosegue a drogare il mercato è un numero crescente di sprovveduti pronto ad acquistare il metallo a ogni ribasso del prezzo. Questi speculatori destinati a restare schiacciati nel meccanismo, non sono in grado di comprendere i dati macroeconomici, immaginando che anche un calo di 100 dollari rappresenti una finestra per entrare “nel grande gioco”. L’errore più grande commesso nel 2008 è stato quello di coprire le perdite di questi speculatori con soldi pubblici, salvando diversi istituti bancari. Si spera che ciò non venga replicato nei prossimi mesi, pulendo così il mercato. Grazie a queste forzature nella definizione del prezzo, che non consentono di comprendere il reale ordine di grandezza tra domanda e offerta, la cilena Codelco, il maggior produttore di rame al mondo, si avvia ad alzare i premi per i clienti europei e asiatici, ma non quelli americani perché sa che non venderebbe sul quel mercato. Fonti Reuters indicano che la società sta spingendo per un premio sulle quotazioni LME di 98 dollari la tonnellata in Europa, contro gli attuali 80. Su questo aspetto, ovvero il concetto stesso di premio, come si profila il collasso sociale in Cina, è pensabile che possa crollare anche questa non dovuta tassa sul prezzo già eccessivo del metallo.
Una valutazione di questo tipo è serpeggiata tra la comunità dei broker e i loro clienti nella settimana di consultazioni al LME apertasi a metà ottobre. Centinaia di produttori, consumatori e commercianti si sono incontrati in una sorta di “Stati Generali” per una prima fase di negoziazioni sulle forniture del 2011. In forza di questo evento annuale, i prezzi purtroppo si sono alzati a danno di tutti i metalli non ferrosi, per una media del 2,5% e in particolare per lo stagno (+5,8%) dopo che si è saputo quanto le forti piogge in Indonesia, abbiano danneggiato le strutture produttive che subiranno un calo estrattivo dell’11%. E’ un mondo strano quello che festeggia sulle disgrazie altrui. Oltre questi aspetti per drogare il prezzo al rialzo sul rame è imminente il lancio dei primi Etf (Exchange Traded Funds) che prevedono accantonamenti fisici di metallo non ferroso, limitando in questo modo la disponibilità di scorte nei magazzini del LME. In queste condizioni, dove si lancia un prodotto che dovrebbe garantire il mercato che si rivela un ostacolo alla reale determinazione del prezzo, non può che esserci un’altra devastante crisi. Concludendo, il futuro del rame è ancora sporcato dalla speculazione, il che esclude agli operatori la serena gestione del magazzino.

STAGNO
La materia prima che nel corso del 2010 ha subito più di tutti la speculazione al LME è lo stagno con una crescita del prezzo settlement del 54%. L’unico paragone possibile tra le commodities è con il frumento quotato all’Euronext. Una dinamica di questo tipo non si vedeva dal 1988 quando i contratti sullo stagno smisero d’essere denominati in sterline e passarono al dollaro, quale valuta di riferimento. Ovviamente la voluta debolezza della divisa americana sui mercati mondiali produce questi effetti sulle materie prime gonfiandone i corsi, il che predispone anche a prepararsi per una controtendenza in rapido ridimensionamento del prezzo. Siamo nell’era della volatilità più assoluta, il che rappresenta un pericolo mortale per quegli operatori che hanno la necessità di gestire un magazzino.
In questo momento c’è una carenza d’offerta sullo stagno che appare comunque destinata a cambiare nel breve periodo. Nei magazzini del LME gli stock di stagno sono scesi del 53% dal primo gennaio 2010 per effetto della duplice spinta esercita dal rallentamento della produzione e dei bisogni di consumo del metallo. Le leghe per saldature e la banda stagnata per imballaggi alimentari (i più importanti utilizzi dello stagno) si dovrebbero attestare nel 2010 a un consumo globale di 345mila tonnellate. Questa stima è stata formulata dall’International Tin Research Institute (Itri) confermando l’aumento rispetto il 2009 del + 13%
Se il settore dell’elettronica dovesse sia mantenere le attuali quote di mercato che anche crescere, il fabbisogno di stagno dovrebbe confermarsi in queste dimensioni anche nel 2011.
Sul piano della produzione invece ci sono due problemi: la Cina e l’Indonesia. In linea di massima comunque, l’estrazione di stagno oscilla intorno alle 328mila tonnellate provocando un deficit che la stessa Itri valuta in 17mila tonnellate. Più nel dettaglio, il primo produttore di stagno nel mondo, la Cina ha imposto un rallentamento dell’attività per ridurre i consumi d’energia elettrica non essendo dotato quel paese di centrali idonee allo sviluppo. In Indonesia, secondo produttore ed esportatore mondiale di stagno, il Governo locale comunica un calo nell’export del 11,3% nel 2010. In tutto sono state collocate sul mercato 60mila tonnellate nei primi 8 mesi di quest’anno. Le piogge monsoniche allagando le miniere, produrranno quale effetto un export complessivo di 80mila tonnellate e quindi un calo del 19% sulle esportazioni. Infine dalla Repubblica Democratica del Congo si segnala un divieto d’estrazione, per motivazioni politiche interne, con effetto dall’11 settembre colpendo la parte est del Paese dove è maggiore la cassiterite, ovvero l’ossido di stagno da cui si ottiene il metallo.
In conclusione la convergenza di questi effetti è destinata a non perdurare, perché produce danno agli stessi produttori. E’ probabile che nel primo trimestre o quadrimestre 2011 almeno l’Indonesia e il Congo si riaffaccino sul mercato internazionale, contribuendo al ridimensionamento dell’attuale prezzo dello stagno. A queste notizie si aggiunga anche l’annuncio della Macquarie Research del 1° ottobre, sulla conclusione degli effetti della campagna di risparmio energetico in Cina. Ne consegue che oggi non conviene comprare questo metallo, perché troppo caro e di sicura discesa sarà il suo prezzo nei prossimi mesi.