QUESTA VERSIONE DEL TESTO E’ STATA APPOSITAMENTE MODIFICATA PER CONSENTIRE UNA MIGLIORE LETTURA ALLA COMUNITA’ DEL PARKINSON

Le mie idee sul Parkinson

di Giovanni Carlini

AVVISO: prima di leggere ogni parola del mio pensiero, è corretto che avvisi il lettore che come persona e ricercatore sociale (sociologo) sono disprezzato dall’Associazione Nazionale del Parkinson sede di Milano, per una serie d’aspetti sostanzialmente riconducibili alle mie idee. Se decidete di proseguire a leggere, lo fate mettendo in discussione quanto avete creduto sino a oggi.
PREMESSA
Su un argomento così drammatico potremmo scrivere tanto. La scelta che questo studio vuole fare è per un’estrema concretezza, ma non per questo essere superficiale. Ne consegue che l’esposizione avverrà per punti, la cui analisi potrebbe essere successiva se richiesta.
Chi sono
Sono un sociologo, per cui il mio studio è concentrato sul comportamento umano. Con diversi titoli ed esperienze sia di vita sia professionali, solitamente connetto tra loro aspetti che apparentemente non avrebbero una diretta ragione.
E’ il caso del “dilemma del prigioniero” che ho formulato e sviluppato. Mi spiego. Mentre la Signora “x” mi stava educando al suo dolore, narrandomi la vita che ha dovuto sopportare afflitta dal male, mi è parso intuitivo collegare le sofferenze dei prigionieri di guerra americani in Vietnam replicando gli insegnamenti su ciò che stavo ascoltando. Non solo. La Signora “y” discutendo delle mie idee afferma: hai presente i cartoni animati con gatto Silvestro e Titty? Il canarino che vive sereno nella sua gabbia, vorrebbe essere liberato, ma chi è in grado d’aprire la porticina è sia liberatore sia il cattivo. Noi malati di Parkinson, afferma sempre la Signora “y” che mi sta educando, viviamo nella gabbia e ci vogliamo inconsciamente restare.
Questi profondi ragionamenti, intuitivamente portano sia alla “sindrome di Stoccolma” (comune sorte tra ostaggio e terrorista) che all’esperienza del prof. Milton Erickson, statunitense, 1901/1980 (scienziato sociale e psicanalista, tanto ricco quanto disordinato) sulle tecniche di superamento degli ostacoli alla guarigione.
La domanda che ci si pone è? Sono mai stati integrati tra di loro studi, tecniche ed esperienze diverse? Probabilmente no perché la figura del sociologo rimanendo sganciata dal clinico non interagisce e il malato (che io voglio chiamare prigioniero) resta privo d’assistenza.
Tornando alla domanda iniziale: chi sono? Un ricercatore sociale di oltre 50 anni che aggregando ragionamenti diversi perviene a conclusioni non ancora diffuse ed è per questo che così tanta ostilità e offese personali gli vengono riservate anziché lavorarci insieme. Che stano un mondo che si dichiara non razzista e poi offende chi la pensa in modo diverso a fini di bene sociale. Il mio impegno in questo mondo deriva dal bisogno d’elevare la civiltà nel rapporto tra società e paziente (prigioniero).
Una mente sana in un corpo malato
Questa è la definizione che ritengo saggia nel sintetizzare la posizione di una persona affetta dal morbo di Parkinson.
Sostanzialmente stiamo parlando di “prigionieri” incastrati in uno scafandro corporeo. Questa situazione caratterizza l’intera degradazione della malattia nei 5 stadi che la contraddistingue. Nel caso la sintesi possa essere considerata condivisibile, oltre al piano squisitamente clinico, su cui non oso dire nulla, ne esiste anche un altro che tende a cercare una forma comunicativa adeguata a una persona sana, cosciente e condannata. Detto in altri termini si propongono almeno due prassi:

A)l’applicazione dei criteri di relazione con i prigionieri maturate in ambito di sociologia militare (è una branca di studio specifica che conosco) dalla guerra del Vietnam in poi, aprendo un dialogo verso una coscienza del prigioniero offesa nella sua corporeità (attenzione, non voglio parlare di pazienti perché li ritengo prigionieri)

B)il ricorso alle normali prassi di terapia breve, già studiate dal prof. Milton Erikson e perfezionate dal prof. Giorgio Nardone. In pratica dal 1974 si ritiene che il paziente “trattenga” la sua patologia (tentata soluzione che alimenta il problema) in un circolo vizioso. Per dribblare questo processo mentale di protezione del proprio stato clinico è necessario aggirare i sistemi di mentalità sia con esercizi banali tesi a rimodulare la quotidianità (stabilire nuove esperienze) che intervenendo, nei casi più insistenti, con tecniche d’ipnosi. Sostanzialmente s’inganna il sistema di conservazione della malattia all’interno del paziente, spostando la sua attenzione su altri aspetti della vita. Concettualmente qualcosa del genere è applicato nei corsi di PNL (programmazione neuro linguistica) per quanto questa pratica non sia assolutamente ritenuta, scientificamente completa.
Non sono uno psicanalista, ma invito i ricercatori a valutare l’applicazione delle loro conoscenze sul tema, con i quali mi dichiaro pronto nel collaborare avendo anche insegnato PNL negli ultimi 10 anni.

Considerazioni sulla degradazione mentale del prigioniero da Parkinson
L’affermazione di uno spirito sano in un corpo malato, che esprime una delle sintesi del “manifesto sul Parkinson” qui descritto, necessita un chiarimento.
Certamente nei primi stadi del progresso della malattia è inequivocabile che lo spirito del prigioniero sia sano nella completezza delle sue funzioni. Purtroppo però, nel progresso della sindrome, il prigioniero oggettivamente perde sia lucidità che linearità d’elaborazione.
Significa che l’espressività si rende logorroica, ripetitiva, ossessiva, limitando la completa capacità d’osservazione-analisi e reazione di un comportamento normale.
Purtroppo questo incide sui sentimenti in ambito affettivo, la cui non completezza nel racconto delle emozioni, ne limita il mantenimento e sviluppo (crisi di coppia nella storia affettiva dei prigionieri da Parkinson).
Su questo versante del dramma umano nella malattia, si nota da parte del prigioniero una durezza di comportamento lesiva al romanticismo necessario al completamento del sentimento e dell’amore. Inutili appaiono i costanti richiami da rivolgere al prigioniero, relativi a quella famosa frase del film “Shinder’s list”, un’ora una vita, ovvero del significato dell’esistenza matura concentrata in una singola sola ora, anziché nello sviluppo dell’intera esistenza. Interessanti sarebbero gli approfondimenti che emergono sul piano relazionale affettivo della sessualità della coppia descritti nel recente studio pubblicato dal titolo “La sessualità nella società globalizzata” – Armando Editore, Roma 2015, dove si scopre una terapia della coppia in crisi attraverso un’audace comunicazione sessuale: unica ricerca pubblicata sull’argomento in termini così riabilitativi per la coppia.
parkinson
Concludendo, è certamente vera l’affermazione di uno spirito sano in un corpo malato, ragionando di Parkinson ma nel progresso della patologia diventa sempre meno credibile a livello concettuale. Del resto se esiste la terapia riabilitativa e le terapiste (come i terapisti) dovrebbe anche esistere una terapia sociologica per compensare quegli oggettivi cali di linearità del pensiero. In tutto questo la socialità, come lo stimolo comunicativo epidermico privato, sono strategici per mantenere umana e significativa l’esistenza di un prigioniero che a questo punto non è più un malato ma una persona in difficoltà espressiva. Stiamo forse vivendo l’alba di una nuova sensibilità epidermica e sessuale per il prigioniero da Parkinson tale che si possa ingentilire la sua esistenza attraverso la comunicazione affettiva? La parola d’ordine in questo caso dovrebbe essere: educami al tuo dolore.
La terapia sociologica
Applicando i più elementari concetti dello psicanalista Milton Erickson e i successivi aggiornamenti, emerge che per “spostare il focus mentale del prigioniero da Parkinson, dal suo stato ad altro, favorendo così un miglior rapporto con la sua personale prigionia è necessaria una terapia sociologica.
Detto in altre parole necessita la costituzione di una comunità, virtuale o reale, in grado di coinvolgere h24 i prigionieri in una successione senza fine d’attività in ogni genere e grado. Non si tratta di una procedura ludica, al contrario del “darsi una mossa”, con gli altri, perché da soli “si muore” in ogni senso.
Non basta, si sta anche parlando di una prassi individuale d’attivazione/reazione per rimettere la persona al centro di un crocevia di motivazioni affettive, percettive, sensitive, emotive, epidermiche, concettuali su cui è fondata la vita.
Comunicando con i prigionieri da Parkinson, è sintomatico registrare la ripetizione di un concetto: sono destinato a morire, si tratta solo d’aspettare la mia ora.
Appena registrata la ripetizione del concetto nel corso di poco tempo (in genere una volta ogni 2 minuti) è saggio farlo presente e ricordare che alla “morte certa” del prigioniero per Parkinson si contrappone la “morte incerta ma sicura” di ogni altra persona. Da qui nasce la riabilitazione caratteriale e comportamentale che così descritta appare semplice e banale, ma che in realtà coinvolge una notevole successione d’azioni di riattivazione dell’umore della persona.
La terapia sociologica dovrebbe comportare un costante monitoraggio in ogni contesto privato/sociale del prigioniero da Parkinson, attraverso una prassi di ricerca sociale che si chiama qualitativa. Ciò comporta che ogni prigioniero ha una personalità e rappresenta un caso a se stante, evitando le più facili e usuali procedure di campionamento tipiche delle ricerche quantitative. Siamo in presenza dell’opposizione tra 2 metodiche diverse: quella quantitativa scelta dalle istituzioni per redigere il libro bianco sul Parkinson e la qualitativa che si rivolge alla singola persona come se fosse l’unico caso. L’arte, nella ricerca qualitativa, risiede nel collegare “i singoli casi” in un’elaborazione generale per fornire alla Nazione i numeri del bisogno.
Detto in parole più semplici, attualmente la ricerca sociale sul campo viene svolta in termini formali (documenti già elaborati dagli organi sanitari sui quali costruire il campione statisticamente valido) ottenendo di poter “contare” i prigionieri senza entrare nelle loro reali sensibilità. Questo metodo è da me considerato non adatto a comprendere la reale dinamica del dramma di una malattia che dura oltre 30 anni (condanna a vita) anche se va riconosciuto come la prassi del campionamento consente un adeguato utilizzo dei fondi posti a disposizione al progetto.
Sorge la domanda: è preferibile la formalità o il benessere delle persone?
Al contrario, con il metodo qualitativo, serve visitare prigioniero per prigioniero, in una misura non inferiore alle 20/25mila persone reali, per avere sia un quadro generale e nazionale del dramma, che anche e soprattutto scatenare una reale comunità in continua interazione che rappresenta il vero valore aggiunto della ricerca.
In pratica è saggio realizzare una ricerca sociale sul Parkinson, intesa come reale strumento di mobilitazione e aggregazione, anziché documento da sfoggiare per mostrare d’aver fatto qualcosa che è sicuramente premiante ma non sostanziale e risolutivo, in un dramma umano così esteso e crudele.
Metodica operativa
Si ritiene opportuno avviare, con la collaborazione di tutti, un censimento nazionale per capire le effettive dimensioni del Parkinson come prigionia a vita.
Per fare questo (non ci sono fondi) serve iniziare formando un QUESTIONARIO a domande aperte (il prigioniero di Parkinson scrive quello che vuole; sarà compito del ricercatore capire)
Per formare il questionario (che tipo di domande vogliono i prigionieri) serve una mobilitazione nazionale (ecco che si crea il diversivo) redigendo un elenco di quesiti ritenuti sia necessari sia accessori (spesso le domande accessorie sono le più importanti).
Tramite un’associazione di riferimento, tutta la Nazione è chiamata a rispondere, in un lasso di tempo non superiore ai 45 gg, con confronti quotidiani sul tema: qual è l’elenco corretto di domande da fare a un prigioniero di Parkinson?
Terminata la fase 1, la formazione del questionario, quella successiva sarà la distribuzione e compilazione che richiederà 4 mesi.
Il tempo non è importante quanto la mobilitazione, che esprime il reale valore di questa iniziativa che dovrebbe assumere carattere permamente.
L’elaborazione del materiale pervenuto comporterà 6 mesi con report giornalieri atti ad alimentare il dibattito nazionale.
12 mesi dopo l’avvio della ricerca, sarà possibile pubblicare uno studio che avrà come finalità (oltre l’aver attivato quotidianamente la comunità) quello di spiegare alla Nazione cosa serve a una famiglia o a un prigioniero di Parkinson.
Conclusioni

Quando si comincia?

Giovanni Carlini – ricercatore sociale, sociologo.