L’imprenditore ostaggio nasce da uno studio di caso aziendale.

Un’impresa del Nord-Est italiano, decisamente importante nel suo settore, produce e vende attraverso gli agenti. Il settore è agroalimentare. 

Presente sul mercato nazionale da 30 anni si è anche proiettata all’estero con qualche risultato. 150 persone in tutto, compresi gli agenti e poco meno di 20 milioni di euro di fatturato con margini interessanti.

La prima generazione, che fondò l’impresa inizia a chiedersi quando sarebbe saggio lasciare ai figli che sono tutti in azienda “da sempre”.

L’imprenditore è ovviamente orgoglioso d’aver collocato le sue perle in posizioni di vertice senza che abbiano svolto alcuna carriera, anche perché da quando sono nati, “mangiano pane e azienda”.

Ovviamente c’è un problema: non ci sono manager, anche perché l’imprenditore non vuole spendere nulla, a meno che non gli sia sostanzialmente regalato dalle diverse agevolazioni che ogni tanto compaiono nel panorama delle possibilità.

Ne consegue un’impresa con responsabili eccezionalmente giovani, persone di sicura fedeltà e fiducia alla famiglia, ma totalmente privi di capacità d’analisi, riflessione ed esperienza.

Su questo aspetto l’imprenditore attende che il tempo maturi le giovani e fertili menti.

Tolto il nucleo direttivo e familiare, benché particolarmente esteso, forse una ventina di unità su 150, i dipendenti e gli agenti comunque accettano questa situazione anche perché l’azienda è fortissima sul piano tecnico avendo un prodotto veramente ben fatto e costantemente curato.

Sul piano tecnico e di qualità, non si può assolutamente dire nulla se non lodare questa realtà.

Tra i difetti dell’imprenditore (nessuno è perfetto) c’è quello di dipendere in forme quasi maniacali dall’umore degli agenti, cercando sempre conferme dalla maggioranza. In pratica è incapace d’avviare un processo se non ampiamente condiviso. La sua paura è che l’agente possa andarsene portandosi via una fetta di fatturato. Avendolo a sua volta già fatto nel passato, a danno di altre aziende concorrenti, oggi tollera anche comportamenti maleducati e fortemente offensivi in nome del fatturato.

Fortunatamente abusi di questo tipo sono limitati.

Sul piano economico verso le persone, il capo dell’azienda è molto incerto perché concede e poi ritorna sui suoi passi per cui l’azienda non ha una indicazione certa rendendo tutto aleatorio.

In pratica ogni momento è buono per togliere quanto era stato dato. 

Apparentemente è un controsenso quello di dipendere dagli umori della maggioranza e allo stesso tempo logorare singolarmente le posizioni in questo dare/togliere. In realtà non c’è affatto confusione tra i due atteggiamenti contrastanti, per questo grande capitano d’industria affetto da una malattia: l’incertezza.

Laddove il 100% degli imprenditori soffre l’incertezza del mercato, qui si rovesciano gli elementi del problema. Il mercato va bene, vende con soddisfazione, ma soffre ugualmente d’incertezza nel rapporto con le persone.

Cosciente di questo, il Capo dell’azienda non ha il coraggio di delegare a un professionista quello che non sa fare perché costa. In effetti un direttore del personale o meglio un direttore commerciale ha un valore di costo industriale “impensabile” per questa ditta. Come se ne esce?

Certamente fra 50 anni l’azienda sarà ancora sul mercato grazie all’alta qualità del prodotto, costantemente monitorata e aggiornata.

Gli attuali giovani invecchieranno introducendo i figli evitando così “l’alto costo” dei professionisti (che in realtà se lo guadagnano il lavoro) e rimarrà, nel panorama nazionale un’azienda sostanzialmente padronale.

Questo caso aziendale non è poi così strano.

Non è facile affermare se questo esempio rappresenti maggioranza, certamente coglie un’importante fetta d’imprenditoria italiana.

Quando si discute di bassa produttività o di un profilo modesto dell’azienda Italia, si motiva ciò con diversi argomenti. Si parla di piccola dimensione delle imprese, sottocapitalizzazione, lenta propensione all’internazionalizzazione, poca ricerca e sviluppo e numero di brevetti registrati.

Il riferimento coglie anche le banche che erogano pochi fondi e al fisco troppo invadente, come al governo incerto.

Raramente si “fanno i conti in casa” chiedendosi quale sia la forma mentis del nostro capitano d’industria, a cui sicuramente dobbiamo il successo di una nazione tendenzialmente povera e ora ricca, grazie all’industria, ma i cui protagonisti hanno ancora bisogno di una presenza concettualmente evoluta su cui misurarsi per crescere dentro.

Buon lavoro.