La Turchia nella Ue? no grazie! Studi d’antropologia politica del prof. Carlini

Nel 2009, ospite della Confindustria tedesca a Istanbul, in un convegno, dichiarai agli imprenditori europei presenti, senza mezzi termini, l’impossibilità per la Turchia d’essere ammessa nel contesto sociale, politico ed economico dell’Europa. Le motivazioni erano fondate in termini culturali, storici e politici: l’Islam non è attualmente idoneo a convivere pacificamente con le altre culture, quindi non può partecipare ad alcun contesto culturalmente diverso (nel mondo ci sono 9 culture).

La contestazione che ho subito fu molto dura ovviamente perchè, in particolare dagli imprenditori, si limitò al solo aspetto economico, manifestando in questo modo l’intera sua fragilità. Ricordo come la Preside della Scuola italiana di Istanbul, mi esortò a non dichiararmi contrario all’ingresso della Turchia nella Ue (il governo italiano ha interesse a ciò mi disse) e dovetti anche sorbirmi il sermone dell’addetto culturale del consolato italiano, invitandomi ad esprimersi diversamente. Resta il fatto che tutti, politici, insegnanti, diplomatici e imprenditori, hanno misurato la loro critica, alla mia presa di posizione negativa verso la Turchia nella UE, solo e soltanto sul piano economico.

Questo limite si riverbera sull’intero disegno della globalizzazione che oggettivamente ha fallito la sua missione: la globalizzazione è stata un disastro! 

Voler dimenticare (appositamente) gli aspetti culturali nelle relazioni tra Nazioni a favore solo dell’economia, ha prodotto un limitato e settoriale benessere nei paesi emergenti (che interessano il partito comunista in Cina o le oligarchie di potere in Brasile, Sud Africa etc…) e una reale povertà in quelli Occidentali (42% di disoccupazione giovanile in Italia e mediamente del 22% in Europa). Detto in altri termini, ci siamo fatti del male tradendo ogni aspettativa!

Per fronteggiare gli errori della globalizzazione si stanno attuando le politiche di reshoring (rientro a casa della aziende precedentemente demoralizzate grazie a incentivi fiscali). Ovviamente l’Italia questo concetto non l’ha ancora capito mentre è in vigore con successo negli USA e in Gran Bretagna.

Tornando all’ipotesi della Turchia nella UE (no grazie) c’è un’incompatibilità culturale che non si limita ai soli turchi, ma coinvolge l’intero Islam. Ne consegue che non sia possibile alcuna integrazione sociale nella diversità culturale? No, questo concetto va mitigato e adattato. Non è vero che non sia possibile alcuna integrazione con le altre culture del mondo. Il problema della convivenza pacifica si rivolge SOLO tra l’Islam e le restanti culture, non tra quella occidentale e la latina ad esempio o con quella ortodossa (est Europa). Le culture sono 9 ma solo 1 dorme da 500 anni un sonno culturale ottenebrato dal senso religioso.

Qui serve una precisazione. La religione non è l’oppio dei popoli perchè serve per vivere se integrata nel senso civico di cittadino. Non è vantaggiosa la laicità assoluta (altro estremo di povertà spirituale) come non vogliamo più la religiosità assoluta! Ecco cosa dobbiamo evitare: il senso di assoluto e dogmatico. Al posto del dogma abbiamo un grande bisogno d’integrazione, mix, unione, coesistenza anche a livello disciplinare tra materie diverse (assetto interdisciplinare). Ad esempio fa molto scandalo la mia teoria THE PRISONER OF PARKINSON  inserita nella PAIN SOCIOLOGY (tutte materie ancora non insegnate nelle università) perchè unisce principi di sociologia alla medicina e questo fa letteralmente impazzire gli stessi pazienti, che si ribellano “offesi” dalla richiesta di reazione al male anziché affidare alla solo farmaco ogni forma d’attacco alla malattia. Introducendo concetti di sociologia del dolore e della teoria de Il prigioniero da Parkinson, per esprimere quanto ancora ci sia da lavorare sul concetto d’interdisciplinarità, si rischia d’uscire fuori tema rispetto la Turchia nella Ue, ma spiega come e quanto, rispetto alla medicina, servano supporti culturali per guarire e così come quanto all’economia necessiti una base comune di cultura.

Il concetto potrebbe apparire complesso ma non lo è: per fare affari serve una base culturale d’intesa. Questo vuol dire che non si possono intrattenere intensi rapporti commerciali con le dittature e quindi con la Cina? in effetti la dittatura rappresenta sempre un passaggio limitato nella storia di una Nazione indicandone la sua immaturità storica. Nel caso far affari con la Cina e con qualsiasi altra dittatura, possa rappresentare un’apertura culturale verso la democrazia allora avrebbe senso, altrimenti si riduce a un attentato alla democrazia (è corretto rammentare quanto quest’ultima forma di governo sia ancor oggi la meno peggio tra le possibili)

Il traffico di petrolio tra la Turchia e l’ISIS conferma l’attentato alla democrazia di una nazione immatura, che non è degna d’elevarsi agli standard occidentali, ma conferma ancora come tutto l’Islam stia ancora dormendo un sonno culturale che impedisce ogni sviluppo economico. L’economia e il relativo benessere è sempre il frutto di un sistema sociale fertile. Infatti nel mondo del Parkinson, specie in Italia, non ci sono ancora le premesse e il livello cultura adeguato per confrontare materie diverse (sociologia e medicina) convergenti sul benessere del prigioniero (malato di Parkinson). Questi esempi confermano quanto sia urgente il bisogno di cultura, in un mondo ignorante. La globalizzazione è ignorante, il mondo del Parkinson in Italia è ignorante. Situazioni diverse, ma accomunate dalla povertà che resta il vero problema degli occidentali e degli arretrati.