Argomenti per scrivere un saggio sulla fiducia

di Giovanni Carlini
Questo non è un appello a fidarsi del prossimo, ispirato da sentimenti filosofici, ma un’analisi approfondita sul perché le nostre imprese, specie di medie e piccole dimensioni, in Italia, non riescono ad applicare un sistema fiduciario di gestione con il loro management, restando limitate al contesto familiare. Molte, troppe aziende non sanno neppure cosa sia un ingegnere in produzione o un manager in comando, oppure hanno subito pessime esperienze, applicando male i principi di collaborazione tra proprietà e management.

La fiducia in sé per sé è solo una parola, per acquisire sostanza va connessa al concetto di sviluppo economico. La vera domanda da cui nasce ogni ragionamento è: come incrementare lo sviluppo in ambito aziendale ed economico? Questa domanda se la pose per primo Max Weber, nel saggio L’etica economica delle religioni universali, contenuto nel testo Sociologia della religione del 1920. L’obiettivo consisteva nel confronto tra le religioni, cercando di capire perché il capitalismo si fosse affermato solo in Occidente. Si notò come l’unica religione che ruota intorno a una profezia etica stimolante per i fedeli, nel tentativo di conquistarsi il paradiso, fosse il cristianesimo.

Al contrario le fedi asiatiche sono impostate su profezie di tipo esemplari, ovvero offrendo un modello di vita ascetico, limitato alle classi intellettuali.
Infine il confucianesimo non si basa su alcuna profezia, sottolineando il culto degli antenati e della famiglia.
L’ascesi intramontana, che significa il bisogno di darsi da fare per farsi riconoscere da Dio, è solo del cristianesimo e in particolare nella fede protestante-calvinista.
Con queste considerazioni si passa dal 1920 al 1995 con il politologo Francis Fukuyama, che si chiede nuovamente quanto la fiducia incida sullo sviluppo economico, staccandosi però dalle religioni, identificando nella società familistica quel tipo d’impresa dove dominano reti sociali ristrette all’ambito familiare e parentale.
Il confronto qui è tra la Francia, l’Italia e la Corea del Sud da un lato e la Germania, gli Stati Uniti e il Giappone dall’altro. Si nota un’accentuata propensione allo sviluppo nel secondo gruppo di stati, dove c’è una maggiore apertura al management e agli assetti di fiducia interpersonale.
Punti di vista confermati dal sociologo Inglehart, nel 1996, nella prima edizione del World Values Survey tra il 1981-1991 e successivamente 1991-2002 riguardo a 43 nazioni che poi saranno 81.

Usando la fiducia interpersonale come un indicatore di base, si evidenzia uno spettacolare sviluppo economico in quelle aziende che ricorrono al management esterno alla rete familiare, concedendo ampi margini di discrezionalità.

Sullo stesso filone d’analisi, va ricordato il lavoro di Putman del 1993, specifico sull’Italia, cercando di capire perché il paese sia così frammentato, riconoscendo un basso profilo di civicness, per cui non bastano solo le riforme economiche e delle istituzioni pubbliche per il rilancio della Nazione. A Putman segue una ricerca molto cruda dell’antropologo statunitense Edward Banfield, del 1958 sul familismo amorale in Italia.

L’insieme di questi spunti, che costituiscono la dottrina di riferimento, individuano in forma crudele uno dei problemi di fondo dell’imprenditoria italiana: un nanismo strutturale dovuto a incapacità di gestione aziendale.

In questo senso non si discute qui l’attitudine a far quadrare i conti dei nostri imprenditori. C’è sono un gran numero d’imprese, anche di successo, che obiettivamente oggi sono appena la metà di quanto dovrebbero, per una miopia strutturale della dirigenza familiare che le possiede e dirige.

Oltre a questa spietata considerazione, il perdurare della crisi economica pone allo scoperto fittizi fallimenti per risistemazioni familiari d’aziende in crisi, che rinascono con gli stessi problemi di inadeguatezza direttiva già conclamata. Per quanto riguarda le giovani leve dell’imprenditoria, spesso sono gli stessi figli degli imprenditori che dopo la laurea entrano nell’azienda familiare per restarci tutta la vita, ignorando completamente il mondo sul quale dovrebbero incidere.
Come essere protagonisti, nel mondo globalizzato, se molti proprietari d’impresa hanno iniziato a lavorare a 14 anni nella loro azienda e oggi sono alle soglie della pensione?

La soluzione è solo una e già sperimentata. Avviare un turn over nella dirigenza dove in un triennio, si possa apprezzare l’intero sviluppo intellettivo del manager, spostando il posizionamento dell’azienda da un livello all’altro.

Al termine, il manager sarà sostituito o rinnovato nella carica per un altro triennio. Infine, nel migliore dei casi, spostato su altre problematiche, benché sia saggio che lasci l’impresa dopo uno o due cicli.

Nasce così il concetto di manager quale “motorizzazione” per un’autovettura che può sostenere diverse cilindrate, a seconda del percorso immaginato descritto in piano di marketing. Povere quelle imprese dove funzioni vitali sono occupate dai figli o parenti, che essendo espressione della continuità familiare, hanno certamente un valore se reduci da anni e anni, vissuti in cantieri/realtà operative all’estero.

Concludendo, il management esterno alla famiglia è paragonabile al sistema sanguigno in un corpo vivente, purchè la testa (direzione strategica) resti nelle mani di chi ha fondato e diretto l’azienda.