Critica alla globalizzazione tramite un’intervista divenuta occasione per una preziosa sintesi.

Intervistatore: grazie prof. Giovanni Carlini per aver accettato questa intervista inedita. Prima d’entrare in argomento può spiegarci perché è così critico e tagliente contro la globalizzazione avendo scritto ben 4 libri di cui uno si affianca a un film inglese di prossima uscita?

Intervistato: prof. Carlini. Sono io che ringrazio Lei, La critica che muovo alla globalizzazione è semplice quanto completamente trascurata da chi non è addentro all’osservazione sociologica. 

In era globalizzata, sostanzialmente a partire dal 2001, allorchè in novembre gli Stati Uniti presentarono al WTO la Cina come interlocutore economico mondiale (in cerca d’alleati per la guerra al terrorismo appena scoppiata con l’attacco alle torri Gemelle nel settembre di quello stesso anno) viviamo tutti un’intensa stagione di precarietà lavorativa.

Per precarietà s’intende una lunga fase della vita attiva e lavorativa degli Occidentali dove la stabilità del posto di lavoro è venuta meno. Mi si consenta di spiegarmi con due grafici dove posso illustrare gli stili di lavoro che ci sono stati nel periodo 1960-2000 in Italia e in Occidente e quelli in uso dal 2000 ad oggi.

Nella grafica 1, sull’asse delle ascisse viene indicato il tempo lavorativo di una vita umana, mente in ordinata l’intensità o forse meglio il controvalore monetario dell’attività lavorativa svolta.

Il grafico 1 coglie il periodo 1960-2000. In quell’epoca, uscendo dal percorso formativo scolastico, i giovani, meditante concorsi nello Stato o entrando nel sistema delle imprese, iniziarono un percorso lavorativo-evolutivo lungo quanto la loro esistenza. Al termine del periodo d’attività lavorativo ci si trovò automaticamente in congedo/pensione.

Si osservi ora il grafico 2 che conserva la stessa significatività del grafico cartesiano precedente e riguarda il periodo 2000 (inizio della stagione globalizzata) fino ad oggi, 2020.

Lo studente che esce dal percorso formativo non trova lavoro restando per un periodo importante della vita, quasi un quinquennio, senza denaro e lavoro.

Si tratta di una fase della vita estremamente critica.

In realtà i giovani il denaro lo hanno e anche troppo, ma è quello dei genitori, guadagnato sia nelle precedenti generazioni lavorative se pensionati o in corso di maturazione se in attività.

Quest’aspetto, pertinente alla “ricchezza bruciata” è fonte di una forte conflittualità generazionale che si somma ad altri elementi di sofferenza che alzano la critica e conflittualità sociale.

Tornando al giovane in cerca di lavoro in era globalizzata, non trovandolo, viene umiliato da forme “barbare” di contratto come lo stage (pieno sfruttamento legalizzato) con ragazzi che lavorano 40 ore alla settimana per appena 600 euro al mese, sistematicamente mandati a casa alla conclusione del contratto.

La critica allo stage come contratto di lavoro che spinge all’imbarbarimento della società è qui palese.

Ovviamente i ragazzi vengono illusi nel corso di sviluppo dello stage su una ipotetica, futura stabilizzazione del contratto passando nel ruolo di apprendisti. Conversione che non avviene.

A Milano famosi sono i casi della società Percassi, che gestisce diversi negozi di marchi americani, applicando, nella complice impunità della legge, la procedura.

In realtà, come emerge, è la legge che permette l’abuso dello stage o dell’alternanza scuola-lavoro come in apprendistato, elevando la fase critica esistenziale giovanile.

Comunque, reduci da uno stage deludente (capace di trasformare i futuri consumatori in nemici del marchio commerciale e di ciò le aziende sono colpevolmente ignare) i giovani si avventurano in una accesa schizofrenia tra un lavoro che c’è, non c’è, potrebbe esserci, chissà.

Nell’altalena di smarcato precariato, su un lavoro che se anche trovato offre paghe misere, il tempo passa cogliendo una stagione importante della vita degli Occidentali: tra i venti e i quarant’anni.

In questi vent’anni di critica incertezza (giunge notizia di ricercatori che vengono stabilizzati con contratto stabile alla soglia dei cinquant’anni) la netta precarietà sofferta in ambito lavorativo viene introitata anche sul piano affettivo, intellettivo, emotivo e sessuale. 

Si assiste, in era globalizzata, a un travaso di precarietà dal solo aspetto lavorativo a quello privato, personale, affettivo di coppia.

La nuova precarietà affettiva comporta la ricerca di un partner o meglio di un certo tipo di rapporto privato quando si gode della dignità dell’impiego remunerato che muta in presenza di disoccupazione.

Il partner della stagione d’assenza di lavoro non è lo stesso di quando si sta bene. La prova di quanto qui affermato si trova nel dato ISTAT che comunica come i divorzi siano a quota 42% mentre le coppie non stabili e non coniugate si stima non reggano per il 60% dei casi.

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Detto in altri termini e tradotto sotto un altro punto di vista, la società civile ha il 50% dei suoi figli minori reduci da una separazione tra genitori. 

Una dinamica o meglio un fallimento emotivo di questo livello, trasferisce ai minori una percezione d’amore incompleto, una sorta di tradimento sofferto da genitori immaturi. E’ la stagione critica dell’amore.

Allargando la sfera d’osservazione e di studio, da dove proviene il “femminicidio”? Sicuramente il maschio era e resta violento come natura comportamentale, certamente però le nuove donne hanno perso la capacità di controllo e di formazione sull’uomo che avevano le nostre nonne. 

Entrambi, sia colui che va formato sul piano affettivo (il maschio) sia la donna che dovrebbe formare, sono spesso reduci da un fallimento emotivo che gli ha già traditi le cui ferite sono tuttora vive e aperte. Queste ferite scatenato altro odio “verso l’amore” nell’incapacità di gestire le sue dinamiche di passione e allontanamento. 

Tutto questo ragionamento serve per spiegare un fenomeno nuovo in questa stagione globalizzata: il transito della precarietà dal livello lavorativo alla sfera privata con effetti devastanti per la stabilità delle nostre vite private.

Con queste riflessioni com’è possibile aderire alla globalizzazione? La reazione si chiama Brexit, amministrazione Trump per citare solo i nomi più eclatanti del momento; una stagione di reazione alla globalizzazione che si è aperta a partire dal giugno 2016 in Gran Bretagna, consolidata a novembre, sempre del 2016, con le presidenziali USA e in attesa di conferme nella rielezione del Presidente Donald Trump a novembre 2020 negli Stati Uniti.

Intervistatore: grazie per l’ampia quanto documentata premessa concettuale al suo sistema pensiero, prof Carlini, ora è possibile capire di più le attuali tendenze indipendentemente dall’aderire o meno alle Sue conclusioni.

Carlins: carissimo, le idee non servono per aderirvi o meno quanto per stimolare una riflessione che non deve per forza convergere con nessuno.

Il ragionamento rappresenta una palestra per la mente che ci rende così attivi e “giovani” indipendentemente dall’età anagrafica.

L’illusione che le idee siano per aderire ha rappresentato il punto di forza e tallone d’Achille idee ideologie che sono per questo se non morte, in gravi difficoltà.

Una crisi che coinvolge anche gli assetti religiosi dove è necessario credere per aderire o comportarsi come sta scritto e ha detto Dio. Ne consegue che non credo Lei aderisca al mio sistema pensiero, mi accontento che lo analizzi: nulla di più.

Intervistatore: specificatamente sul tema del piano formativo, nelle migliaia di ore di formazione che ha sviluppato in questi ultimi anni, ha notato una differenza tra giovani e adulti?

Carlini: si certo, esiste una profonda divaricazione tra metodo d’insegnamento verso un giovane rispetto l’adulto. Tanto per cominciare l’adulto richiede più tempo perché va convinto/persuaso della validità dell’informazione trasmessa attraverso l’uso delle fonti e a volte anche dell’esperienza vissuta. Il giovane non richiede i tempi di maturazione o meglio di convincimento di un adulto.

Non è finita. La persona adulta quando impara qualcosa non la dimentica più perché la possiede mentre il giovane subisce la formazione motivo per cui spesso, superato l’esame, sei mesi dopo, lo studente universitario non ricorda quasi più nulla. Al ragazzo resta l’attitudine a trovare le fonti per documentarsi, in un certo senso il metodo di studio per approfondire, quanto invece all’adulto resta proprio l’informazione stessa che sa anche sviluppare su nuove tematiche a livello di metodo e sistema.

Concludendo, per insegnare all’età matura serve armarsi di tanta pazienza rassegnandosi a subire una valanga di “perché” riponendo sempre in discussione conquiste consolidate negli ultimi secoli di studio.

La formazione per gli adulti vuol dire prendere per mano queste persone e ripercorrere l’intero processo di maturazione dell’idea che già fu sviluppato dai primi pensatori e rivisto-riscoperto-attualizzato di nuovo. Alla popolazione scolastica giovanile questo iter evolutivo e formativo non interessa. 

Intervistatore: sui tempi di maturazione della nuova informazione trasmessa a una classe di adulti rispetto dei ragazzi c’è qualche riflessione da fare?

Carlins: si è vero, i tempi di maturazione dell’elaborazione dell’informazione sono cambiati nel corso degli ultimi decenni. Negli anni Sessanta, fino al Duemila, il tempo necessario per capire l’informazione e successiva rielaborazione, facendo proprio il dato, richiedeva un lasso di tempo pari a 4-5 giorni, massimo una settimana.

Lo stesso processo d’acquisizione del dato, per rielaborarlo tanto da possederlo nello stesso tipo di scuola e argomentazione, osservato negli anni successivi al Duemila, fino ad oggi, nel 2020, comporta almeno 15 giorni se non venti.

Tradotto in termini pratici, il processo di comprensione da parte degli studenti nel corso degli ultimi 60 anni a parità d’ordine e grado del corso di formazione (istituti tecnici commerciali, comunemente indicati come “ragioneria”) richiede una tempistica triplicata.

Perché accade che andando avanti nel tempo, abbracciando il cosiddetto progresso che ci dovrebbe rendere migliori come persone, i tempi di comprensione ed elaborazione del dato sono aumentati in forma esponenziale? Il quesito è appassionante perché pone in crisi il concetto stesso di sviluppo e l’utilità stessa della formazione come concetto e applicazione.

Analizzando più a fondo il dato enunciato, emerge che la nuova generazione 2000-2020, inserita nel ciclo formativo di una scuola media superiore, ultimo triennio, non è che non capisca o si riveli tarda nell’elaborazione del dato, ma esprime una netta preferenza alla sintesi anziché l’analisi del dato. La cosiddetta capacità d’arrampicarsi sugli specchi è più accentuata in questa generazione anziché la precedente, quasi a dire che chi non è più giovane provò vergogna nel “non sapere” ammettendo la mediocre-scarsa preparazione rispetto la maggiore tendenza alla sfrontatezza attuale. Cosa desumere da questi iniziali dati empiricamente osservati? Che forse l’arte dell’arrangiarsi sia più accentuata in questa generazione rispetto alle passate?

In prima battuta, in una lettura superficiale in effetti si pensa che il giovane d’oggi si sappia “barcamenare” meglio rispetto ai suoi genitori-nonni percependo meno la vergogna e disagio dal non essersi saputo preparare adeguatamente perdendo inesorabilmente tempo.

Ad una lettura più profonda del dato empirico studiato svolgendo le lezioni nella stessa tipologia di scuola per ordine e grado in Regioni d’Italia diverse prima come studente poi come docente, emerge un’altra chiave di lettura forse più interessante.

È possibile che l’uso/abuso del Web abbia indotto nei suoi usufruitori una spiccata tendenza alla sintesi, limitandosi alla lettura del solo titolo frontale della notizia, anziché il successivo e necessario approfondimento. Ecco dove difetta l’attuale capacità d’analisi e successiva esposizione. Una tendenza di sintesi di questo tipo conduce lo studente all’abuso del concetto “praticamente”. Attraverso l’abuso di forme espressive del tipo: cioè…sarebbe.…praticamente….come si nota…è a tutti noto che…..indicano quella vertiginosa arrampicata sugli specchi di cui si è già detto, rispetto al dignitoso “non lo so” degli anni Sessanta-duemila.

Al di là del sorriso e senso di comprensione che queste parole possono trasmettere al lettore (siamo stati tutti studenti) gli effetti pratici, se traslati nella realtà quotidiana, sono molto diversi.

L’arrampicata sugli specchi giustifica una maggiore litigiosità e conflittualità sociale nella coppia come per strada o nelle riunioni di condominio. Specificatamente tra le mura familiari, nel rapporto più intimo scaturiscono quei fallimenti chiamati separazione-divorzio e abbandoni (già precedentemente citati) o peggio la condizione di singolo per scelta. Quest’ultima posizione sociale, ovvero quella del singolo, enuclea una sostanziale incapacità (immaturità) nella relazione affettiva che si concentra solitamente su un animale da compagnia come il cane/gatto da utilizzare come amore compensativo. 

Il singolo per scelta, non chi è in ricerca attiva per il completamento della sua esistenza affettiva, è di fatto un immaturo, perché orgogliosamente “blindato” dentro il suo specifico quanto personale interesse esistenziale. Capisco che con queste proiezioni sull’esistenza sociale, partendo dalla sola esperienza scolastica, si potrebbe far pensare a un “pessimismo cosmico” ma è esattamente sui banchi di scuola che si costruire la successiva vita affettiva e lavorativa senza con questo stabilire un nesso fisso di successo scolastico = successo nella vita, che non è affetto dimostrato tale. Gli esempi di successo nella vita, a fronte di un percorso scolastico non esaltante, sono talmente tanti, da annullare ogni forma di correlazione scuola-vita. 

Il paragone qui in essere, non è tra il voto e il successo nella realtà affettiva-lavorativa, ma molto più profondo e intimo. 

La mancata capacità di capire, manifestata a scuola, si replica in un’altrettanta carenza nel comprendere se il partener possa amare o no, cosa fare quando la partner è gravida o come gestite un contenzioso sul lavoro e fare i compiti con i figli anziché lasciarli davanti alla TV o peggio a giocare sulla piattaforma di gioco (play station). Questo paragone non è lo stesso di quello tra voto e successo, ma applicato su un piano più vasto. Essendo superficiali a scuola è facile replicare il modello in negativo anche nelle successive relazioni professionali e personali al di là della quantificazione del voto o successo nella vita. Qui non si correla il 6 in matematica con il reddito di sopravvivenza. Splenditi esempi di bocciati a scuola hanno saputo sviluppare una vita meravigliosa perché seppur perdendo l’anno scolastico hanno saputo mantenere intatte quelle sensibilità, capacità d’emozionarsi e d’amare come di capire messe ancor più a frutto nella vita reale. 

Concludendo questo passaggio di correlazione tra formazione scolastica e qualità di vita sociale e successivamente affettiva, si può essere anche bocciati restando sensibili e puri di cuore, aperti all’emozione e ricchi di quote di vita. Ecco dove si spezza la relazione tra il voto e la vita, il punto di rottura è la sensibilità interna dello studente successivo adulto.

La sensibilità dei naviganti della rete informatica è così sintetica-povera-ridotta-misera che non riesce a porsi oltre la sintesi, sterilizzando la meditazione e l’articolazione di un pensiero maturo o comunque intenso. La dematerializzazione è uno dei passaggi di de-responsabilità dell’essere umano moderno, Occidentale e globalizzato.

La formazione? E’ indispensabile, se sa portare lo studente di oggi e adulto di domani oltre la sintetica conoscenza dei fatti, stimolando l’analisi profonda, quella stessa analisi da utilizzare quando si sarà disoccupati, traditi, soli e ammalati. La cultura è necessaria alla vita e indispensabile per quando va tutto male. 


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