Un bilancio per meglio agire nel futuro. Vuol dire che solitamente le persone dimenticano gli insegnamenti del presente proiettarsi sterilmente al futuro.

di Giovanni Carlini

Ricordo ancora come, alla fine del 2012 fu presentato il 2013 sul piano istituzionale: una riscossa per uscire dalla crisi.

Indubbiamente fu commesso un errore di previsione che è stato perpetuato durante l’anno!

Quindi il problema è più grave rispetto solo una previsione errata trasformatasi in un consuntivo peggiore del previsto.

Come sempre, per capire un problema necessita allargarne le visuali. Sinteticamente possiamo considerare il 2013 come un’annata perduta? La risposta è si e no allo stesso tempo. Non lo è stato per gli Stati Uniti e la Germania. Potrebbe esserlo per il nostro paese.
In ogni caso serve un distinguo per un bilancio intelligente.

Perché altri popoli sono riusciti a gestire la crisi chiudendo l’anno in condizioni migliori rispetto all’inizio? Possiamo liquidare l’argomento affermando che hanno sistemi politici diversi e più stabili, o ci sono altre considerazioni?

Il male nazionale: il bilancio

Volendo estrarre una sintesi dal trascorso 2013, imparando qualcosa da applicare nel futuro, la prima considerazione che balza agli occhi è un diffuso pessimismo disfattista dilagante per la Nazione. Detto più semplicemente manca l’ottimismo. Le ragioni per non essere ottimisti sono tante, troppe e tutte valide, ma non bastano e non devono essere accettate. 

Il pessimismo come la noia è una malattia e il fatto che esistano i virus non significa che rinunciamo ad uscire
di casa e sporcarci le mani. Stiamo quindi vivendo una stagione non tanto di difficoltà, quanto di paralisi alla reattività costruttivadelle alternative. 

Lo conferma il bilancio CENSIS, nella sua recente indagine sociale così sintetizzabile: una nazione ripiegata su se stessa.
Perché non riusciamo a scattare in un fare per avviare delle soluzioni anche discutibili,però migliori rispetto alla sofferenza nuda e cruda? Va anche considerato, a svantaggiodella vitalità nazionale, un aumento del 28% di giovani che lasciano l’Italia per collocarsi all’estero.
Francamente è il consiglio che dolorosamente offro ai miei studenti e figli, esortandoli a lasciare l’Europa, ma il dubbio resta: perché non riusciamo a sistemare i guai di casanostra? Le risposte ovviamente ci sono e riguardano sia la pedagogia che la cultura, tutti argomenti traditi dalla scuola, troppo coinvolta in vicende interne e sindacali. Certamente gli italiani leggono poco (quanti libri ogni mese sono tra le mani da ognuno di noi?) quindi assorbono ancora meno idee.
Nella desolazione più assoluta, in cui vive la nostra personalità, ridotta a rispondere alle emozioni degli stati umorali, priva d’idee e concetti, al massimo si possono vivere degli entusiasmi che durano un giorno (se va bene).
A costo d’essere pessimisti e fare la fine di Savonarola (bruciato nella pubblica piazza di Firenze) il problema c’è e si ripercuote anche nella stabilità degli affetti umani, dove alla crisi di una coppia, non c’è l’arte del ricucire e rilanciare, ma solo la degenerazione dello scontro e conclusione nella separazione/divorzi (42% in Italia). Si parla troppo spesso
d’economia, dimenticando la parte umana della società che oggi, più di prima è in crisi con carenza di modelli comportamentali di riferimento, che non sono l’attore famoso impegnato nel prendere il caffè su una terrazza piena di donne.
Concludendo questa parte, forse la più amara dell’intera riflessione, il problema non è nella sola carenza di lavoro o nell’eccesso di tasse o nell’assenza di leadership, ma di voglia e capacità di reagire da parte di noi tutti, ripiegati su una paura paralizzante di perdere un benessere già compromesso.

Cosa serve fare? Entrando nel campo della reazione allo stallo.

Lasciando il forcone nella stalla, è necessario un lavoro di ricostruzione del nostro spirito sociale.

Significa, detto in termini più semplici, pensare di più, fare di più, sentire di più, ascoltare di più, arrabbiarsi di meno, reagire a scatto di meno, mangiare di meno, bere di meno, spendere di meno, leggere di più, prendersi mano nella mano di più, passeggiare di più e usare l’auto di meno, forse viaggiare di più per capire e imparare infine “lavorare di meno” (tanto se lavorare produce questi risultati è meglio fermarsi a riflettere).

Passando dal sociale all’industriale. L’industria come attività imprenditoriale del fare si conferma nel 2013 come l’asse portante per una società moderna, ricca e dotata di prospettive. Però, in Italia (meglio rispetto all’Europa) c’è un problema di de-industrializzazione non più dovuto alla delocalizzazione come negli anni scorsi, ma alle chiusure per cessazione d’attività e fallimenti.
Il depauperamento delle attività produttive, è un’emorragia che incide direttamente sulla drammatica disoccupazione nazionale, dove per puro “buon gusto” non vengono ripetute le cifre. Ecco che si concretizzano così gli effetti di una globalizzazione erroneamente concepita: carenza d’industria e lavoro; le due parole cardine della crisi. Definito in
termini più colti, il passaggio da una società materiale (industriale) a un’altra liquida (globalizzata) ha prodotto la crisi umana e sociale, che s’esprime in disoccupazione e chiusura d’imprese.
Questa dinamica si è manifestata ancora di più nel 2013 nel nostro Paese, ma non si ha la percezione che sia stata compresa. Chi avrebbe dovuto capire la lezione? E’ inutile prendersela con i politici. Il loro problema è mantenere una legislatura che garantisca stipendio e poltrone, quindi non sono il corretto interlocutore nell’analisi del problema.
Restano gli imprenditori e ancora di più le singole persone; noi tutti. La lezione dobbiamo apprenderla e orientarla nel voto (quando ci saranno le elezioni) ma applicandola negli acquisti e verificando da dove proviene la merce. Qui torna in campo una parola non gradita da nessuno ma necessaria: protezionismo. 
Ebbene si. Proteggersi quando fa freddo, per evitare una polmonite mortale, è saggio pur contro il parere di tutti gli intellettuali che predicano il contrario perché lo hanno letto nei libri, senza rendersi conto d’affogare in una società liquida. 
Scegliere di comprare europeo e italiano è una scelta politica.
Qui il singolo riconquista il suo giusto rilievo dal piattume dell’uniformità mortale. Si può fare una cosa del genere? Si, e precisamente ogni giorno. La manifestazione di piazza, tornando al primo argomento di questo spunto, è solo una scampagnata in centro città. Al contrario è necessario lasciare sul bancone delle merci, quelle che non rientrano in un assetto culturale e di civiltà che pretendiamo, ma non sappiamo difendere.
Concludendo questo passaggio: consumare è una scelta sociale e politica. 

Siderurgia è bello? Un bilancio.
Certo che il 2013, non solo con il caso Ilva, ma considerando l’intera industria siderurgica nazionale, ha provocato molti interrogativi nel Paese. Un bilancio negativo. Duole che non sia stata varata una pari campagna di sensibilità, verso tutti gli italiani, sull’importanza e valore di quest’assetto industriale strategico.
La lamentela non nasce dalle cose fatte dal mondo siderurgico, ma da quello che non ha fatto. Parlando con studenti e persone ben pochi (nessuno) nei suoi ragionamenti, cita l’industria dell’acciaio, restando fuori dal
panorama della percezione sociale. Che l’acciaio sia ricchezza o anche un’occasione per unire tutela del paesaggio e necessità lavorative per un grande numero di persone (quindi una benedizione) non è stato capito. Neppure si sa esattamente quanto acciaio ci circondi in cucina, nel posto di lavoro, in auto.
Vivendo immersi nell’acciaio, ma non essendone consapevoli, significa ignorare l’importanza di un’attività industriale “sbattuta” in cronaca giudiziaria, come se fosse uno scippo alla vecchietta che ha perso la pensione.
Le esigenze di spettacolarizzazione per unmondo che ha bisogno di fare per esistere, spesso non corrispondono alla sostanza e alle effettive necessità di capire l’ordine d’importanza delle cose. Vittima di ciò: l’industria siderurgica nazionale.
Questo ragionamento non è interessante solo per quanto appena detto, ma desidera spingersi su un altro aspetto più importante.
Se la Nazione non “vede” un tipo d’industria, accadono diversi fatti tra cui il non spingere i suoi giovani a parteciparne, ma ancora più grave, difettano la creatività e innovazione.Certamente la ricerca come studio del nuovo è sicuramente solo frutto di denaro speso e l’industria bellica, che non è nel cuore degli italiani, comunque studia vendendo prodotti sempre più sofisticati, ma in questo caso c’è l’energia dello Stato che spinge su ciò che non esiste nel capo edilizio, siderurgico e meccanico, affidato alle inesorabili leggi del mercato e quindi di tutti noi. Nel mondo borghese-civile (non militare-statale) la ricerca è frutto di una percezione sociale d’utilità (vedi la ricerca sul cancro e le staminali). Il ragionamento regge se si considera l’innovazione di prodotto e processo come “un asso nella manica” dell’industria occidentale. Ecco compiuta la quadratura del cerchio: se l’industria è visibile, viene capita dalla società che fornisce a sua volta persone e consumo selettivo, (evitando l’import da paesi che non rispettano la nostra civiltà o peggio ne sono avversari) richiedendo idee nuove che alimentano la ricerca.

[/b]L’emorragia di giovani che vanno all’estero[/b]

Il futuro è nei giovani, ma quali, quelli che restano o che se ne sono andati? Magro bilancio.

Certamente chi è partito è la parte migliore della Nazione perché linguisticamente compatibile con l’estero, ha conseguito anche la formazione adeguata per offrirsi alle imprese che lavo rano di più, assumono di più, forse pagano di più e offrono un futuro. 
Concludendo, chi ha fatto la valigia è il futuro e rappresenta la parte più audace di una generazione che si piange addosso. Sorge una battuta cattiva, ma reale: se il futuro del Paese è nelle mani di quelli che restano, forse è meglio emigrare? Il percorso ideale per un manager è di studiare in Italia, specializzarsi all’estero, rientrare in patria per trovare lavoro e far carriera nuovamente all’estero, per una decina d’anni, rientrando con i gradi di manager dotato d’idee. Questo meccanismo è fermo (si è mai avviato?) Il danno di una nazione ferma non è solo nel mancato reddito, ma nelle ridotte prospettive future.

Conclusione di questo bilancio 2013
C’è speranza? Si, solo se la sapremo trovare dentro di noi.
Buon lavoro.