Come una folla si trasforma in gruppo coeso

di Giovanni Carlini

Quando la logica è sovvertita dal quieto vivere (siamo passati da un lungo periodo ipercritico al consociativo forzato) un ritorno alla meditazione dei classici è cosa saggia. Il pensiero corre al prof. Emile Durkheim (1858-1917) uno dei padri fondatori della sociologia. Il problema di un sociologo è sempre lo stesso: capire come una folla si trasformi in un gruppo coeso. 
Il tema rappresenta l’ossatura di tutta la disciplina. Durkheim, nel merito, ritiene che solo in presenza di una morale si abbia quel collante per tenere insieme una società. A differenza di Carl Marx, che focalizzò tutto sui sistemi di produzione, quali mezzi di transito da una società all’altra, Durkheim schiera il concetto di solidarietà tra gli uomini a motore della trasformazione sociale dopo aver stabilito il primato della morale. Infatti, perché quest’ultima abbia successo, necessita la solidarietà che si traduce in norme e quindi in istituzioni. Fin qui il ragionamento fila. 
Lo studioso francese però entra in crisi quando affronta il tema della religione. Pur riconoscendo che la morale nasce nello spirito religioso, critica e delegittima il bisogno d’immanenza dell’uomo.
Prima d’abbandonare “il papà della sociologia”, Durkheim ci offre un concetto su cui meditare: l’anomia. Per stato “anomico” s’intende la mancanza di norme morali chiare e condivise da cui scaturisce non solo la morte della società intesa come collettività, ma anche il suicidio anomico, quale rifiuto individuale di proseguire a far parte della società.
Ecco così definita la morte della società: l’anomia. A questo punto ci servirebbe un altro autore, Ferdinand Tonnies, per comprendere la distinzione tra comunità e società, ma urge l’applicazione pratica. Il pensiero corre a una grande impresa che non c’è più lasciando a casa 120 persone. Qui l’esempio ha un senso per la totale assenza di comunicazioni tra il vertice e la base. Ovvero, pur esistendo una sorta di “dirigenza”, queste erano persone invecchiate nella posizione, ormai demotivate, che avevano perso il senso della missione. Non credo che l’esempio rappresenti un caso isolato, perché girando, spesso il modello si replica. Concretizzando, l’anomia è l’assenza di regole condivise. In azienda spesso c’è:
– una proprietà che giustamente segue l’impresa ma non il personale;
– dei dirigenti che non sono più capaci di creare idee. Attenzione non sto affatto dicendo che servano giovani in posizione di vertice (tutto il contrario, che i ragazzi si formino negli anni in carriera) ma osservo la bassissima tendenza alla fantasia e creatività del management; 
– per “creare idee” serve studiare non basta l’esperienza, ma chi sta studiando?
Concludendo. Avendo bene in mente quanto costa in più un’impresa in stato di anomia, è necessaria una rivisitazione dei ruoli, per cui un manager o produce idee o non serve, perché costa troppo sia come retribuzione che “azioni non svolte”. Infatti quando si studiano le fasi lavorative quindi anche della dirigenza, non si trovano, in genere, persone che “fanno poco”. Al contrario! Dirigenti schiacciati da un mare di responsabilità. Il guaio però è che le funzioni svolte non sono le loro perché derivano dall’essere troppo accentratori o peggio alla ricerca di un ruolo mostrato attraverso l’essere eternamente indaffarati. 
Sotto questo punto di vista è necessaria una scuola morale (torniamo al concetto dei valori di Durkheim) che spieghi nuovamente in azienda cosa fare, come farlo, perché e in che tempi, con quale serenità e stile di solidarietà, tra persone che vivono più ore al lavoro che in famiglia senza amarsi (o a volte il contrario)
Privi di un ripensamento sui tempi e modi, valori e regole, spirito di collaborazione e identità culturale, resta solo il naufragio della comunità, ovvero l’anomia che costa mediamente un 12-14% in più nel bilancio annuo aziendale.
Buon lavoro.